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ALESSANDRO PREZIOSI - Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco

Un essere umano prima che un artista, una follia che cela l’essenza stessa dell’esistenza: la fragilità. Uno spettacolo intenso, travolgente; il dramma di una persona che siamo abituati a conoscere grazie alle sue opere coloratissime e rivoluzionarie: un uomo incompreso, nonostante la sua profonda genialità.

Si apre il sipario e Vincent è lì, immerso in una scenografia sterile, lattea: inizia lo spettacolo. Un allestimento scenico che a tratti diventa più caldo, ma che tornerà presto ad essere inesorabilmente bianco. La cornice perfetta alle emozioni che gli attori, con grande abilità, lasciano trasparire facendo avvertire più di un brivido al pubblico in sala.

Parlare solo di follia, è altamente riduttivo. Ciò che affascina, e che intriga, è quella linea tra realtà e finzione che lo spettatore non riesce a cogliere fino in fondo, perché la scena è reale, ce l’hai di fronte, eppure quelle persone, in realtà, sono proiezioni. Sono la rabbia e, allo stesso tempo, la speranza di un uomo che è privato della sua esistenza, alienato e confinato in una stanza del manicomio di Saint Paul.

È arrabbiato, perché non è più sé stesso. Non è capito. È privato della sua passione: della sua arte. È speranzoso. Desidera profondamente essere salvato da quel luogo, che è di un bianco così assordante perché rappresenta una vita diventata arida, e ha bisogno di urlare al mondo il suo malessere, per poi guarire. Questa non è semplice follia: questa è la storia di un uomo che si colpevolizza per non essere capito dal mondo che lo circonda. È, in fondo, una storia che potrebbe appartenere ad ognuno di noi.

Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco, è in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 1 dicembre. La regia è di Stefano Massini ed il cast si arricchisce dei contributi di Francesco Biscione, Massimo Nicolini, Roberto Manzi, Alessio Genchi, Vincenzo Zappa. Ma è Alessandro Preziosi, protagonista assoluto di questa splendida opera, a raccontarci il ‘suo’, magistrale, Van Gogh.

Alessandro, qual è la differenza tra l’interpretare personaggi che esistono solo in letteratura e interpretare, invece, un personaggio reale, che sta vivendo un momento di fragilità, come il Van Gogh che ritroviamo in questa rappresentazione?

Direi la contemporaneità. Ovviamente esiste un’ampia letteratura contemporanea, più europea, e per un teatro contemporaneo. Noi abbiamo scelto un testo di Stefano Massini per poter cambiare passo, registro e codice. La differenza è gigantesca: quindi, nella misura in cui tutta l’impostazione nell’allestimento cambia, anche il modo di recitare cambia. Qui non si ha più il paracadute della letteratura, di una storia che si conosce già e che, per quanto possa cambiare nell’adattamento, alla fine è sempre quella. Parlare, invece, di Van Gogh come di una persona che è riconosciuta nella sua forza – ma nella sua ‘forza fragile’, nella forza che deriva dal dolore e dalla disperazione – permette allo spettacolo di approfondire proprio l’argomento della fragilità. Questo, perché la fragilità fa parte dell’essere umano e la grande forza risiede nella sua accettazione.

Interpretare Van Gogh in un contesto molto forte come quello dell’isolamento in manicomio rappresenta una sfida di grande intensità. Cosa ti ha attratto di questo ruolo e come ti sei preparato?

L’isolamento in manicomio è metaforico perché parliamo, anzitutto, di un isolamento mentale. Ci si prepara – e questo mi capita, mentre recito – cercando di pensare a quante volte ci troviamo soli con noi stessi, a parlarci e autoconvincerci, a cercare di far quadrare qualcosa che invece, una parte di noi, opprime e che non ci permette di vedere le cose con lucidità. Ci si prepara, tra le tante prove, pensando e ricordando cosa vuol dire recitare quando si ha a mezzo metro di distanza un muro, e dobbiamo sfondarlo, quel muro. L’attore vive – nella sua performance – l’isolamento rispetto al fatto che c’è un pubblico all’ascolto. Questo aspetto è molto interessante: è quasi un cassetto a doppio fondo.

In quale di queste celebri frasi di Van Gogh ti riconosci: “Prima sogno i miei dipinti e poi dipingo i miei sogni”; “Non soffocare mai la tua ispirazione e la tua immaginazione, non diventare schiavo del tuo modello”; “È meglio dipingere gli occhi degli uomini che delle cattedrali”; “Per vivere bisogna amare molte cose”?

Io mi riconosco in una frase che non so se è di Vincent e che dice: “Non vivo tanto per me stesso, ma per far vivere le cose”. Questa, secondo me, racchiude più di ogni altra l’essenza e la determinazione di questo pittore. Ce n’è anche un’altra: “Se oggi quello che produco è considerata erbaccia e non grano, vuol dire che forse avevo ragione. Perché se poi un giorno verrà considerata grano, vuol dire che posseggo dei lavori anche oggi”. Di lui, poi, amo l’opera Il ritratto del postino (che raffigura Joseph Roulen, n.d.r.). Tra l’altro, nello spettacolo, il nostro co-protagonista racconta proprio di questo quadro.

Nonostante Van Gogh sia un artista molto complesso, sa sempre offrire spunti di riflessione. Cosa pensi di lui?

Io credo che abbia rivoluzionato la pittura. Da quel momento ad esempio, determinati colori sono diventati ‘colori Van Gogh’. Sappiamo vita, morte e miracoli su di lui: ci sono le lettere, le biografie di chi l’ha avuto in casa. Ho visto, tra l’altro, anche un video su YouTube che raccontava dell’azienda che aveva avuto con il fratello: i soldi erano molto importanti per lui, non faceva altro che parlare di soldi. Diciamo che la sua contemporaneità è data dalla sua immediatezza.

Visto che si è parlato di un Vincent cinematografico, tanto da esserci un film, come potrebbe essere un Van Gogh televisivo? Ad esempio una fiction?

Speriamo che me la propongano. Sarebbe un’ottima idea: un omaggio molto importante. Secondo me anche molto affascinante, considerando che gli artisti contemporanei restano tutti nella storia.

Di questo spettacolo c’è un messaggio in particolare che ti piacerebbe arrivasse al pubblico?

Sì, l’ingiustizia. L’ingiustizia rispetto al fatto che una determinata arte, totalmente priva di interesse e di forza, fosse più importante della sua. Il fatto di essere rinchiuso in un ospedale dove le ingiustizie nei confronti del paziente erano all’ordine del giorno. L’ingiustizia di non essere capiti. Credo che la cosa più importante di questo testo sia che ribadisce, con grande forza, quanto nessuno riuscisse a capirlo. Poi il fatto che passa per essere una persona estremamente presuntuosa non giustifica quanto ha dovuto subire, perché dava dei messaggi compatti, dritti. Non essere capiti è una cosa che ci fa rimanere male; ma, non essere capiti nella nostra fragilità, è diverso. Ammettere la propria fragilità è una grande affermazione dell’uomo.

Non è la prima volta che interpreti grandi pittori. Al di là dello spettacolo, qual è il tuo rapporto personale con i grandi pittori e con l’arte del passato?

Ho iniziato ‘vampirizzandola’, come training di creatività. In sé per sé, apparentemente, non mi è mai importato nulla dell’arte. L’ho sempre utilizzata sapendo che quel luogo, quelle opere, alcuni libri che avevo, mi sarebbero potuti servire. Ma questo solo in un primo momento. Poi, piano piano, è diventata un’esigenza vera e propria. Però, per me, la pittura si ferma a Picasso: oltre non sono mai andato. Non comprendo quello che è arrivato dopo, perché non colgo la profondità alla quale sono abituato e che mi emoziona. Visito molti musei, perché a me non è tanto l’arte che interessa, ma la casa che accoglie l’arte. Questa è una cosa che mi ha educato al bene e non solo al bello.

In copertina: Alessandro Preziosi
Immagini © Francesca Fago