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SUL VIALE DEL TRAMONTO - Los Angeles tra Bukowski e il mare

Non mi è chiaro se Randy Newman intendesse comporre un inno alla sua città quando scrisse I love L.A,. nel 1983, fatto sta che al tempo lo era diventato. Adottata per un periodo anche dai Lakers e dai Dodgers per celebrare le vittorie casalinghe, la canzone non dà un’immagine idilliaca di Los Angeles. È un ironico omaggio alla fiera ignoranza di una cultura che venera il suo sole e le corse con le macchine scoperte, con i Beach Boys a tutto volume, indicando indifferentemente ora qualche bellezza locale, ora un senza tetto ai lati della strada.  

Arrivo in città con un volo notturno da JFK e non mi ci vuole molto a realizzare che dovrei davvero noleggiare un’auto per potermi spostare, che qua non è New York. Ma guidare non fa per me.  

Panorama notturno di Los Angeles

Ho trovato alloggio a casa di Mark, un insegnante di storia che mi affitta una stanza in una casetta blu, circondata da alberi di limone, con un delizioso portico nel retro, sotto al quale, alla sera, si siede con il suo vicino il tempo di bere una birra e di raccontarsela un po’.

Alla notte sogno di trovarmi su di una barca assieme a Buster Keaton che porta la parrucca di Bette Davis in Che fine ha fatto Baby Jane, e un cane vecchio e saggio.

Che sia forse che in questa città il cinema non è solo un’industria, ma è storia o addirittura una realtà parallela?

Non mi resta che presentarmi a lei partendo proprio dal nostro quartiere: Angelino Heights, sulle colline a nord ovest della città, tra Echo Park e Chinatown.  Questa era l’area più alla moda di Los Angeles prima che lo diventassero Hancock Park e Beverly Hills. Un gioiellino impreziosito da una serie di case vittoriane. Quelle delle fiabe, per capirci.

Capita spesso di vedere esposti alle porte avvisi riportanti gli orari delle riprese.

Mi incammino verso la pendenza di Carroll Avenue, a pochi metri da casa.  È difficile non buttare un occhio alle finestre perennemente aperte e trattenersi dal carezzare i cani poco vigili ai cancelli.

Al civico 1350 riconosco la casa di Thriller e ho un sussulto di sorpresa, un gesto goffo che forse la ragazza che incrocio scambia per un tentativo di imitare la coreografia dell’iconico video di Michael Jackson, perché mi guarda proprio male.  Pazienza, sono stata un’adolescente negli ‘80, che volete farci.

La casa di Thriller, al 1350 di Carroll Avenue

Il giorno successivo, decido di incamminarmi a piedi verso Downtown.

Qui non si cammina, non siamo a New York, qui semmai si va fuori a fare hiking!”, mi avverte Mark.

Scopro che camminare non è una cosa che si fa a Los Angeles. “Only the brave walk in L.A.”, dice il saggio. Ma io sono una che cammina parecchio e penso che solo camminando ci si possa davvero connettere con un posto. Mark si arrende con un “good luck with that!”. Insomma, lui è quello posato e responsabile.

Decido di dirigermi verso Downtown da Sunset Boulevard. Che meraviglia!

Lo percepisco come quel portale che ricama e unisce quartieri diversissimi tra loro, sotto una stessa anima cangiante, ma anche piuttosto trasparente nelle sue intenzioni, perché è pieno di immigranti, sognatori, artisti e superstar e il tramonto lì è un’allettante promessa del domani.

Un domani dove può andarti sempre meglio, dove puoi diventare chiunque, fare qualsiasi cosa. Mode, culti e corpi qui si inventano e reinventano. Penso a Bukowski (ci penso spesso, a Bukowski) che, dopo aver lavorato dodici anni al Terminal Annex, l’ufficio postale al 900 di Alameda Street, pubblicò il suo primo romanzo Post Office, a cinquant’anni. L’edificio sarebbe di strada, ma non ci passo. Bukowski odiava quel posto.

In quel tratto del Boulevard si respira un’aria ispanico/hipster: tra negozi vintage, taquerie e saloni tattoo, ristoranti e veggenti, è un invito al cazzeggio al quale non voglio ancora rispondere. Piuttosto, individuo un paio di caffè fighissimi che sembrano star lì apposta per gli scrittori.

Arrivo nella zona di Downtown, dove si trovano alcuni degli edifici moderni di maggiore interesse nella città: la Walt Disney Concert Hall, il Broad, museo di arte moderna, i grattaceli, il Bradbury Building (quello di Blade Runner). Le strade sono così ampie che mi viene voglia di affittare un monopattino elettrico per poterle attraversare in tempo tra un verde e l’altro, che mi viene l’affanno.

Il Walt Disney Concert Hall

Nel giro di pochi minuti, dall’abbagliante lusso del centro, dove pressoché tutti gli abitanti hanno al loro fianco un cane possibilmente più sciccoso di loro, raggiungo Skid Row e POOF… Qualcuno deve avere cambiato la pellicola!

È più che un contrasto… è crudele. Mi trovo nell’homeless neighbourhood, l’area maggiormente popolata dai senza tetto di Los Angeles.  

Non ne avevo visti mai tanti come lì, nel cuore di Downtown, sotto gli accampamenti blu, o trascinando carrelli della spesa contenenti le loro poche cose. Se New York ne conta il numero più alto degli Stati Uniti, qui 2/3 dei circa 50mila stimati nella County non trova riparo presso i rifugi disponibili e vive dunque per le strade.

Potente è l’odore di marijuana e mi pare di un po’ tutto. Non solo sembra abbiano cambiato la pellicola, ma anche il set e gli attori sembra siano stati degradati a comparse dimenticate lì da lungo tempo.

Penso al capolavoro di Altman America Oggi, del 1993, e al brutale ma compassionevole ritratto che fa delle anime spaiate della Los Angeles ordinaria, che la città, in qualche modo, combina nella sua orbita.  

Come primo giorno direi che è abbastanza. Anche per le mie gambe. Chiamo un Uber che tempo 6 secondi arriva, con alla guida un giovane DJ chillwave che mi raccomanda di seguirlo su Instagram. Senz’altro. Il primo di una lunga serie che comunque non mi ha mai spiegato che roba è questo chillwave

Downtown

Cosa ho capito in tre mesi a Los Angeles:

Che con il servizio pool car di Uber non è raro si improvvisino simpatici party, dove si inizia a parlare immancabilmente di lavoro (primo e secondo) e si finisce col parlare di segni zodiacali e di questioni di cuore.

Che i seguaci di Scientology sono tanti ma nessuno dirà mai di esserlo, dunque che è meglio non parlare di Scientology.

Che il nome del famoso castello di Hollywood che ospita spettacoli di magia è Magic Castle e non Magic Asshole come avevo inteso. (Peccato!).

Che c’è una grande comunità armena a Los Angeles e che io devo avere lontane discendenze armene, perché gli armeni della comunità armena si rivolgono a me in armeno.

Che gli armeni sono pazzi di Adriano Celentano. Anche quelli di vent’anni.

Che ci sono degli americani che leggono Camilleri e che hanno imparato qualche parola in siciliano.

Che si cucina più con l’olio di cocco che con quello d’oliva.

Che “faccio l’attore” significa “faccio il cameriere”.

Che è più facile incontrare qualcuno che conosci a Los Angeles che a Carpi.

Che è possibile e anche bellissimo attraversare la città a piedi e arrivare fino all’oceano.

Cosa che ho fatto, arrivando una mattina d’inverno fino a Marina del Rey, fermandomi poi esausta a pranzare in un ristorante italiano a pochi metri dal pontile di Venice Beach e di fronte allo Hinano Café, noto per essere stato il bar preferito di Jim Morrison.

Il responsabile di sala accoglie tutte le clienti con un Ciao bella! e – povere loro – sembrano crederci. Porta i capelli biondi raccolti in uno chignon molto californiano, insomma è proprio carino. Scambiamo qualche parola; lui mi dice che oltre a lavorare al ristorante fa l’attore in una serie, che suona in una band e che alla fine dei concerti gli chiedono pure gli autografi. Il suo accento è fin troppo familiare, è infatti di Modena.  Non tardiamo molto a scoprire che abbiamo un amico in comune a Carpi.

Gli chiedo se gli manchi casa.

- “La mia famiglia e i miei amici certo, ma guarda qua che storia!” e mi indica con gli occhi lo spettacolo sul nascere del tramonto sull’oceano. “Ogni sera è diverso, te lo giuro!”.

Gli credo e comincio a prendere appuntamento con il tramonto di Marina sempre più spesso.

È la penultima sera dell’anno e non me lo voglio perdere. Mi siedo nella terrazza del ristorantino dell’ormai mio amico attore.

Mike, il pianista, suona come tutte le sere a quell’ora Tiny dancer di Elton John e come tutte le sere a quell’ora, vedo passare un ragazzo sui vent’anni che rovista tra i rifiuti, aprendo i contenitori sempre nello stesso ordine. Ha tatuaggi in faccia: si tratta molto probabilmente di meth.  Se ne vedono molti qui, come a Santa Monica e a Venice.

Tramonto a Venice Beach

C'è vento, un vento freddo che porta nuvole scure. Si vede ancora qualche surfista in acqua e tanta gente in spiaggia.  Forse per via della luce particolarmente intensa che si impone sotto le nuvole basse. Un sunset quasi surreale che tutti stanno fotografando.  Decido di raggiungere la spiaggia e di fare la stessa cosa.

Una volta a casa, nella quiete del porticato della casetta blu, vedo che qualcuno dei miei amici su Facebook ha pubblicato una foto della stessa spiaggia, dallo stesso punto e alla stessa ora. Ne riconosco la luce e anche la coppia con cui ricordo di essermi fermata a parlare. Infatti, a pochi metri da loro, individuo poi me stessa.

Ma la foto non è stata condivisa da uno dei miei nuovi amici della zona.

È stato il mio amico Lee Curreri, ovvero il riccioluto Bruno Martelli di Fame, film prima e poi serie degli anni ’80, che effettivamente vive a Marina del Rey con la sua famiglia, dove continua ad occuparsi di musica. Solo che erano 5 anni che non lo vedevo!

Ha ragione il biondino modenese: guarda che storia!

Forse resto un altro po’. Forse New York può aspettare. Forse a Bukowski piace questo elemento.

In copertina: Los Angeles al tramonto