SERGIO TAZZER  - Tra la Cechia e l’Italia, passando per la Sicilia

SERGIO TAZZER - Tra la Cechia e l’Italia, passando per la Sicilia

Sergio Tazzer, trevigiano di nascita e mitteleuropeo nella genealogia. Giornalista, è stato direttore della sede RAI per il Veneto, capo della redazione trentina e della redazione centrale della TGR a Roma. Dal 1995 al 2011 ha realizzato e condotto il settimanale radiofonico mitteleuropeo “Est Ovest” in onda su Radio 1 RAI. Saggista, oltre 10 saggi pubblicati, tra cui “Praga Tragica. Milada Horáková. 27 giugno 1950” (Editrice Goriziana, 2008), “Banditi o Eroi? Milan Rastislav Štefánik e la Legione Ceco-Slovacca” (Kellerman Editore, 2013) e l'ultima opera “Frammenti di Grande Guerra” (Kellermann Editore, 2017). Sergio Tazzer ci prende per mano e ci accompagna alla scoperta di cesure e tornanti della storia più e meno recente di Italia e Cechia, rivelandocene alcuni punti di contatto e di reciproca influenza, accostandola a curiosi particolari sulla discendenza della sua famiglia, le miniere di Kutná Hora.

C'è un forte legame fra lei e la Sicilia, dove ha presentato più volte i suoi libri ad eccezione dell'ultimo. Cosa la congiunge a questa meravigliosa regione?

Purtroppo non ho presentato il mio recente Frammenti di Grande Guerra (Kellermann editore) a Palermo, dove invece presentai altri miei libri, sia in Palazzo dei Normanni che nell'Auditorium della RAI. Tuttavia, amando io la Sicilia, balzerei sul primo aereo se mi invitassero a fare quattro chiacchiere sul mio ultimo libro. Ho visitato tantissimi luoghi, avendo una certa età, ma alla Sicilia resto legato: da Palermo, a Siracusa, a Catania, al Belice, a Selinunte, a Mazara e Marsala e poi: 60° reggimento fanteria Calabria, il mio CAR (centro addestramento reclute) alla caserma Giannettino. Solo chi ha fatto il militare di leva può capirmi. Non è detto che qualche riga non la scriva sulla “mia” Sicilia, io che siciliano non sono.

Il suo ultimo libro, "Frammenti di Grande Guerra", indaga il primo conflitto mondiale. Allo stesso tempo, lei presiede il CEDOS, Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra. Qual è il valore storiografico e educativo, negli anni del centenario, di opere e istituzioni che lavorano in questa direzione?

Il mio libro, ultimo, è uno sguardo su alcuni tempi legati al primo conflitto mondiale. Si tratta di miei studi, conferenze, interventi, nel centenario di un conflitto mondiale, ma soprattutto europeo, nel quale l'Italia mise in grigioverde i suoi giovani che si esprimevano nei diversi dialetti e di cui quasi la metà era analfabeta. Si trovarono a combattere “tedeschi”, che invece appartenevano al mosaico contraddittorio della duplice monarchia danubiana: austro-tedeschi, boemi, moravi, slesiani, polacchi, slovacchi, ruteni, ungheresi, rumeni, serbi, bosniaci, croati, slovacchi, italiani, di religione cattolica, protestante, ortodossa, musulmana, ebraica. E quindi, ragionare di fronte a questo brulicare di uomini è impressionante. Non ci rendiamo conto di quale complessa realtà, affrontata allora con grossolanità, ci fosse. E infatti la prima guerra mondiale fu l'incubatrice della seconda. Il valore umano ed educativo sta tutto qui. Mi sono trovato a presiedere una istituzione importante, il CEDOS, centro di documentazione storica sulla Grande Guerra, che ha sede a San Polo di Piave, fondato – sulla base di un importante suo lascito iconografico sul primo conflitto mondiale – dal compianto Eugenio Bucciol. Eugenio, un carissimo amico, è stato veramente un ponte culturale fra l'Italia e l'Europa, soprattutto quella centro-orientale. Che poi “orientale” è un attributo improprio, quando pensiamo che Praga è più a occidente di Bari. Ma la geografia non è il forte della scuola italiana.

Il suo legame con la Repubblica Ceca è di sangue, prima ancora che di studio...

Fra me ed i Paesi Cechi il rapporto è stretto: cechi (ed italiani) sono i miei adorati nipotini. Di Kuttenberg-Kutná Hora fu il capostipite dei Tazzer, Sebastian, XVII secolo, in Italia, più precisamente nell'Agordino, Repubblica Veneta che sapeva “coltivare il mare” ma non le miniere, e che quindi si affidò ai canópi, i minatori (dal tedesco Bergknappen), e nel caso provenivano da un territorio multiculturale: tedesco, ceco, sorabo. Pensiamo: a Kuttenberg-Kutná Hora giunsero italiani a sistemare finanza e moneta dei re boemi. E da lì, con il patrimonio specialistico che avevano, scesero i canópi, grazie alla libertà di movimento (pari a quella dei maestri comacini, dei muratori) in Nord Italia. Faccio presente che Kutná Hora è patrimonio dell'UNESCO, come il sito minerario della Valle Imperina, nell'Agordino (Belluno). Quindi: Sebastian, che diede inizio alla mia stirpe in Italia, citato nei registri parrocchiali agordini. E poi Sebastian, in mio nipotino praghese (e italiano). E poi, in Repubblica Ceca mi trovo bene, fra gente per bene, legata (ma sovente ne è inconsapevole) all'Italia.

Un rapporto che le è valso la Medaglia del Ministero degli affari esteri della Repubblica Ceca in memoria di Jan Masaryk, per l’instancabile e devoto lavoro per lo sviluppo dei rapporti ceco-italiani. La cooperazione internazionale si fa anche sui libri...

Già, proprio per aver sottolineato nei miei studi, nei miei interventi pubblici, nei miei scritti, non ultimo Banditi o eroi. Milan Rastislav Štefánik e la Legione Ceco-Slovacca (Kellermann editore), ho avuto il piacere di ricevere la medaglia Jan Masaryk. Ma non solo per Banditi o eroi, ma per un altro libro al quale sono particolarmente affezionato: Praga tragica. Milada Horáková. 27 giugno 1950 (Libreria Editrice Goriziana), che presentai a Praga, ma sarebbe più appropriato dire che fu presentato dall'allora ambasciatore d'Italia, Fabio Pigliapoco. Aggiungo che, se il libro mi ha dato soddisfazioni fra gli studiosi a livello internazionale, in Italia fu un clamoroso insuccesso editoriale. Non è detto che riprenda in mano le vicende cecoslovacche dopo il febbraio radioso di Klement Gottwald del 1948.

Entriamo nelle profondità di questo tornante storico dimenticato, che mise assieme Italia e Cecoslovacchia, prima ancora che quest'ultima prendesse la luce. Protagonisti: i legionari cechi e slovacchi.

Proprio ai legionari cechi e slovacchi è dedicato un mio particolare interesse, concretizzato in pubblicazioni e conferenze, ma anche – tramite il CEDOS – con mostre fotografiche. Proprio il CEDOS organizzò due anni fa un colloquio internazionale a Conegliano, di alto livello qualitativo. Perché Conegliano? Perché, dopo la battaglia del Solstizio del giugno 1915, vi furono giustiziati numerosi legionari, catturati in battaglia. La città ha loro intitolato una via, quella dei Martiri Cecoslovacchi. Ma, poi, memoriali dedicati a quei giovani che combattevano per una patria che ancora non avevano si trovano in numerose località venete: Collalto, Oderzo e Piavon nel Trevigiano, San Stino di Livenza e San Donà di Piave nel Veneziano, senza dimenticare Arco, in Trentino. E poi Meolo, dove fu sepolto dopo essere caduto in battaglia il padre dei legionari italiani, Jan Čapek, poi riesumato e trasferito a Praga nei primi anni venti. Ricordo che il Bollettino di guerra n.1268 diramato alle ore 12 del 4 novembre 1918, più noto come Bollettino della Vittoria, firmato Diaz, cita fra le forze che parteciparono alla battaglia finale «cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco-slovacca ed un reggimento americano». Ora, se pensiamo che praticamente in tutta Italia il Bollettino della Vittoria fa bella mostra di sé quale lapide patria, il fatto che vengano ricordati in perpetuo i cecoslovacchi che combatterono in grigioverde è una circostanza di eccezionale rilievo storico e politico.

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Dopotutto, anche l'Italia ha giocato un ruolo fondamentale a campo invertito. Le parole pronunciate da Beneš in visita al campo di concentramento della Certosa di Padula, nel Salernitano, sono anch'esse un marchio indelebile.

Il Belpaese fu la culla della rinascita militare cecoslovacca, e non solo: Beneš – al quale l'Italia non era particolarmente simpatica, come poi si vide nel suo successivo comportamento governativo filo-francese – disse di aver visto «come nasce la libertà di un popolo e come si crea uno Stato». Chi invece fu legato all'Italia (ed a una italiana, la marchesina Giuliana Benzoni) fu il grande Milan Rastislav Štefánik, uno dei tre fautori della Cecoslovacchia (Masaryk pensa, Beneš dice, Štefánik fa): ma morì, precipitando a bordo di un aereo italiano mentre atterrava vicino a Bratislava. Lui vivo, la politica cecoslovacca non avrebbe preso l'indirizzo che conosciamo, da apparire satellite della Francia. Tornando a Beneš, lo troviamo in una fotografia, in posa assieme a Čapek ed ai capi dei Comitati dei volontari cecoslovacchi. Tutti appartenenti al Sokol, la colossale – è proprio il caso di usare questo aggettivo – organizzazione sportivo-culturale fondata nel 1862 da Miroslav Tyrš e da Jindřich Fügner con l'obiettivo della rinascita nazionale ceca. Ricordo che i suoi slety, le adunate ginniche di massa, erano ostacolate in tutti i modi dalla polizia austro-ungarica. Il Sokol ad un certo punto impartì ai suoi aderenti l'istruzione premilitare, tanto da soprannominarsi Esercito nazionale ceco. E ricordo pure che gli aderenti al Sokol portavano anche la camicia rossa garibaldina. Allo scoppio della prima guerra mondiale, Vienna bandì il Sokol ed i suoi dirigenti, chiamati come tutti alle armi, venivano classificati politisch verdächtig, politicamente sospetti. Alla luce dei fatti, Vienna aveva ragione, ma ormai la coscienza nazionale ceca non poteva più essere cancellata.


Facciamo qualche passo verso la storia più recente. La passione politica, la dignità umana, il rifiuto di qualsiasi dittatura sono valori che ha trattato nel libro "Praga tragica. Milada Horáková, 27 Giugno 1950". Un personaggio riabilitato dalla storiografia ceca dopo la rivoluzione di velluto, la cui figura, però, è ancora oggetto di revisionismo...

I giovani all'inizio del Novecento erano imbevuti degli ideali e dello spirito nazionale ed irredentista. Non si sottrasse al richiamo della patria da edificare la giovane Milada Horáková, figlia di una famiglia della piccola borghesia praghese. Aderente al Partito socialista nazionale, fu in prima fila nella lotta per i diritti delle donne. Dopo l'invasione tedesca divenne esponente di spicco della resistenza nazionale. A causa di una delazione, venne arrestata dalla Gestapo e fino alla conclusione della guerra fu reclusa in diversi campi di concentramento. Dopo la liberazione rientrò in patria, riprendendo il suo ruolo nella politica attiva e contemporaneamente operando con efficacia nella Commissione per l'assistenza ai rifugiati. Presidente del Consiglio nazionale delle donne cecoslovacche, dopo il colpo di stato comunista del febbraio 1948, si dimise per protesta dal parlamento e continuò l'opposizione al nuovo regime. Gottwald ne ordinò l'arresto. Contro di lei, fu messo in piedi il primo processo-spettacolo, con la regia di agenti giunti da Mosca, al termine del quale fu condannata a morte ed impiccata nel carcere di Pankrác all'alba del 27 giugno 1950. Per lei chiesero la grazia ai capi comunisti da Albert Einstein a Winston Churchill, da Eleanor Roosevelt a Jean-Paul Sartre, da Simone de Baeuvoir ad Albert Camus. Tutto inutile, su di lei il regime comunista fece calare una cappa di silenzio, che fu squarciato dalla Rivoluzione di velluto. Con il ritorno della democrazia fu finalmente recapitata alla figlia Jana la lettera che Horáková le scrisse la notte prima dell'impiccagione. Stupisce che la sua memoria, in Repubblica Ceca, sia tenuta così sotto traccia. Ignobili poi sono gli attacchi da parte di arnesi nostalgici del vecchio regime. Incomprensibile al pari è il silenzio della intera classe politica attuale, salvo rare eccezioni. Del resto, la vicenda giudiziaria che ha visto e vede al centro il vice-premier Andrej Babiš, è emblematica. Tanto da sospettare che il vecchio detto italiano «con i soldi e l'amicizia freghi anche la giustizia» abbia trovato splendido aggiornamento anche in Slovacchia (e Cechia). Al contempo, cresce l'intolleranza per il forestiero in fasce non solamente giovanili, e non mi meraviglierei che si gonfiasse l'onda di chi vuole santificare Radola Gajda, il leader del Národní Obec Fašistická.

Da conoscitore di Mitteleuropa, Balcani e Europa dell'Est. Cosa ostacola la piena integrazione di questi paesi, mi riferisco in particolare al gruppo di Visegrád e alla vicenda migranti, nell'Unione Europea. Si tratta di un particolare "momentum" economico-politico o ci sono ragioni culturali?

La xenofobia, parente prossima del razzismo, è uno degli strumenti su cui fa leva il populismo di certi partiti e di taluni uomini politici, in Repubblica Ceca, come in Polonia, Slovacchia e Ungheria. Aprire anche di poco il vaso di Pandora dei più bassi sentimenti anti-qualcosa della popolazione non so dove potrà portare. Certo, le ondate della migrazione vanno tenute sotto controllo, ma non nelle maniere brutali che la cronaca ci offre. Sono brutali anche certe dichiarazioni di leader politici e religiosi. Mi meraviglia più di tutti, se posso essere sincero, l'atteggiamento del cardinale Dominik Duka, assai distante dall'atteggiamento di misericordia e di ascolto testimoniati dal suo precedessore, il cardinale Miloslav Vlk, morto da poco e del quale serbo un bellissimo ricordo personale.

Per chiudere, quando la rivedremo in Repubblica Ceca?

Sono spesso in Repubblica Ceca, anche per motivi famigliari. Mi piacerebbe, entro la fine dell'anno, in collaborazione con Československá Obec Legionářská, riunire un po' di italiani che risiedono a Praga, come quelli che ho conosciuto quando – su iniziativa della dott. Manuela Orsetti – si è visitata la sede della Gestapo in Petschkův Palác, per ragionare sulla Legione cecoslovacca “italiana”. E poi, per finire, sto raccogliendo materiali non tanto per una riedizione del mio libro su Milada Horáková, quanto per dare un'occhiata alla resistenza al regime comunista attuata da altri, come il vescovo greco-cattolico Pavel Peter Gojdič, passando per Jan Patočka, Václav Havel e altri meno noti.

(Intervista pubblicata sul volume 5 di CIAOPRAGA)

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