LA PENNA DEL PROF - Libri sul banco della vita

LA PENNA DEL PROF - Libri sul banco della vita

«Ti ho lasciato un foglio
sulla scrivania,
manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu
»

Sogna, ragazzo, sogna
Roberto Vecchioni

Agli insegnanti,
sentinelle sulla conoscenza
che le distanze non fermano,
che i cuori raggiungono.

C’era una volta un maestro che non scrisse nulla, ma alla cui voce diede vita uno dei suoi più affezionati allievi. Lui era Socrate e l’allievo Platone, che del primo riportò fatti e parole che ancora oggi sono alla base del pensiero occidentale dell’insegnamento: quello che non punta all’apprendimento della nozione, ma che della nozione ne fa solo uno schiocco di dita per dare il via a una discesa nelle grotte del proprio IO.

Se il filosofo dell’arcifamoso So di non sapere fosse stato oggi intervistato sul tema della scuola, non avrebbe in alcun modo disatteso le più ‘innovative’ metodologie pedagogiche, liquidando il giornalista con una semplice quanto mirata riflessione: «Io non posso insegnare niente a nessuno, io posso solo farli pensare» (Platone, Apologia di Socrate).

È poi risaputo che, trattando l’insegnamento come un processo simile alla “maieutica”, ossia all’arte della levatrice, quell’ateniese del V sec. a.C. avrebbe scosso il capo e con serafica disinvoltura avrebbe schierato la sua umiltà di maestro: «Da me non hanno imparato mai nulla, ma da loro stessi scoprono e generano molte cose belle» (Platone, Teeteto).

Il principio della crescita personale sta quindi alla base del rapporto maestro e discente fin da tempi remoti e ha attraversato i secoli declinandosi in varie situazioni in cui la passione della formazione dell’altro ha superato gli ingessati schemi formali di un rapporto di docenza “frontale”, intavolando, al contrario, un principio di insegnamento più coerente con l’etimologia stessa del termine. Insegnare dal latino insignare dove il prefisso “in” si aggrappa alla parola “signare”, ossia imprimere e la cui radice è la parola signum, segno, sigillo, marchio.

In tal senso è facile ribadire come l’insegnante svolga un ruolo decisivo nella crescita dei propri studenti, lì dove non si limita soprattutto alla trasmissione di un sapere fine a se stesso, ma procede ben oltre lo studio, dove questo è solo uno strumento, puro allenamento dell’anima, alla base dell’aretè, della virtù di ogni uomo.

Dalle stoà tipiche delle agorà greche alla scuola di oggi l’arte della maieutica non è mai invecchiata nel corso dei secoli, andandosi ad affinare con nuovi studi affinché crescessero tra le mani degli insegnanti studenti che fossero un domani «saggi, onesti, ed utili cittadini», come scriveva l’illuminista Francesco Soave, maestro di Alessandro Manzoni.

La scuola, come si cita nel romanzo Cuore di Edmondo De Amicis, è «una madre», è un magistra vitae dove «[…] si trovi ben importante che si avezzino i giovani a propor con chiarezza e precisione le verità di cui son persuasi […]; che si avvezzino a saper prontamente scoprire il vizio di un falso argomento […]» (F. Soave, Istituzioni di logica, 1791).

Nei tempi della Generazione Y, dove i giovanissimi vengono a confronto con realtà plastificate da un esasperato bisogno di apparenza, la scuola, nonostante tutte le difficoltà di tempi difficili causati da tagli economici o da incombenze pandemiche come l’emergenza Covid-19, resta il nido dei primi amori verso la conoscenza e, attraverso di essa, l’incubatrice degli uomini che andranno a reggere le sorti del prossimo futuro.

Dove gli apparati pubblicitari della società di oggi promettono la realizzazione dei propri sogni in maniera facile e rapida, velando il fenomeno del sacrificio per ottenere risultati; dove il concetto di kalokagathìa, ossia l’equilibrio di perfezione tra fisico e spirito dell’uomo, è svuotato del verbo essere, ma è sottomesso al sembrare; dove oggi, come ha sottolineato il filosofo Umberto Galimberti, i giovani «stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui» (L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli 2007); dove oggi l’incalzante evoluzione digitale crea persone iperconnesse, ma isolate, la scuola dovrebbe mantenere alta la guardia sulle nuove generazioni, soprattutto facendo della conoscenza una base di appoggio genuina e non falsata per ridurre le distanze soprattutto tra i giovani e se stessi. Ancora Galimberti: «[…] se è vero che la scuola è l'esperienza più alta in cui si offrono i modelli di secoli di cultura, se questi modelli restano contenuti della mente senza diventare spunti formativi del cuore, il cuore comincerà a vagare senza orizzonte in quel nulla inquieto e depresso che neppure il baccano della musica giovanile riesce a mascherare» (Ibidem).

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Su questa linea di principio nascono alcuni libri scritti da professori per gli studenti. Non sono libri che pretendono di insegnare, ma di suggerire. I loro autori sono o sono stati docenti nella vita, per professione, per vocazione. Pongono interrogativi e non interrogazioni. I loro libri sono una riedizione della maieutica socratea, dove la crescita personale è soprattutto frutto di una maturazione che nasce da una volontà personale.

Uno di questi docenti, in particolare di italiano, greco e latino, è diventato un cantautore italiano famoso: Roberto Vecchioni. Nel 1999 dedica una canzone ai suoi ragazzi, ai suoi ex-studenti, ai giovani che tanto ama. Il titolo è Sogna, ragazzo, sogna e nelle strofe c’è tutto il manifesto di un professore che, in pochi accordi, lancia un appello ai ragazzi di tutta Italia affinché non credano che «la ragione sta sempre col più forte», ma che è necessario stringere i pugni, «non lasciargliela vinta neanche un momento» perché «nessun regno è più grande di questa piccola cosa che è la vita».

Nel 2020 il prof-artista pubblica un libro dal titolo Lezioni di volo e di atterraggio, edito Einaudi, dove la scuola non è ovvietà, ma è vivaio di pensieri e confronti, una manovra diversiva che rende l’apprendimento dei ragazzi vivace e attivo, ma non attraverso vere e proprie lezioni, bensì con storie.

«Sono quindici sproloqui», dichiara Vecchioni a Il Messaggero nel corso di un’intervista, «Si inventa una vita di Socrate o di Ulisse che non esiste, s’inventa una vita di Fabrizio De André, che ho conosciuto bene, con dei particolari che nessuno conosce, si guarda da un altro punto di vista ogni personaggio. Alda Merini io la sentivo di notte al telefono: parlavamo per ore e ore, e io ho riferito tutto quello che diceva: la sua follia, la sua bellezza, tutte cose che finora non si sapevano».

Da ogni storia ci si slancia verso un nuovo volo intrapreso tra chi trasmette il suo sapere e chi ha l’interesse ad ascoltare, cercando di andare oltre le parole, dove anche il silenzio può significare qualcosa di più che assenza di suoni. La cultura, in queste pagine, si fa viva e si anima lì dove la si apprende, tra domande e risposte, con la piacevolezza di masticarla prima di tutto con il proprio punto di vista, per poi gustarla con l’anima.

Si ricordano momenti scolastici in cui «ognuno diceva la sua, si passava da una disciplina all'altra e ci si perdeva nelle scoperte, nelle riflessioni, nel gioco degli scambi, nella ricerca della luce. Leggerlo vuol dire imparare a guardare oltre, a cercare un punto di vista che non sia il solito» (Il Messaggero, 03.11.2020).

I ragazzi dell’epoca sembrano rivivere quei momenti come sostanziali per la loro formazione umana. Nel libro si legge: «Abbiamo imparato a guardare fuori, oltre, immaginando dove ha casa la speranza, dove non lo vedi, ma eccome se c’è, l’amore. Abbiamo conversato col dolore, tenuto in mano il capo di un filo sapendo che dall’altro c’era qualcuno. E scomposto le apparenze, per mischiarle e riunirle in un nuovo quadro che non ci illuda ma ci esalti, ci entusiasmi, ci faccia sentire vivi».

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Ha fatto i compiti con le nuove tecnologie, superando a pieni voti l’esame, il professore Enrico Galiano, classe ’77, inventore di una web-serie dal titolo Cose da prof, con centinaia e centinaia di followers. Galiano parla il linguaggio dei Millennials, senza perdere la tempra classica del docente. Suo il libro di formazione L’arte di sbagliare alla grande, pubblicato dalla casa editrice Garzanti nel 2020. Oltre 150 pagine di racconti, ricchi di piccoli e grandi errori commessi dall’autore nel corso della propria vita, ma che alla fine non sono altro che la prova di essere vivi. La pretesa del libro non è quella di comunicare la perfezione: nessuno è perfetto. Ed è un bene. L’errore è presentato, tra le righe, come un vero e proprio maestro di crescita, dove, pur dopo una brutta caduta ed essersi sbucciati i propri sentimenti, ci si rialza più vivi di prima, più consapevoli di se stessi: «Perché i nostri sbagli raccontano di noi molto più di quanto non crediamo: della nostra storia, di come eravamo, di cosa siamo diventati».

Oggi si vive nel mito, abbastanza mistificato, della perfezione. Si monta la maschera dell’unicità, che non ammette crepe: «una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno» (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926). E quando sono soli, i giovanissimi, restano soli con le loro paure, la loro rabbia, le loro debolezze. Soli con i propri errori.

Galiano riprende il filo del discorso, si denuda della maschera e svela, parola dopo parola, i suoi sbagli, tanti, e le sue scelte, quelle che si azzardano anche con incoscienza, senza conoscere il futuro. «Il punto è che là fuori», si legge nel libro, «non c’è il bianchetto. E ai nostri ragazzi capiterà di sbagliare, di farla grossa magari, e di non riuscire ad accettarlo, di vivere l’errore come se fossero loro l’errore: pensare non di fare qualcosa di sbagliato, ma di essere qualcosa di sbagliato. E quando hai quella sensazione, poi non c’è bianchetto che tenga. Nessuno ti aggiusta, quando pensi di essere un giocattolo difettoso».

Da questo brodo caotico, si emerge vivi e gli errori ci segnalano che non siamo solo un nome che, come concludeva Luigi Pirandello, è solo un’«epigrafe funeraria» che «conviene ai morti» (Uno, nessuno e centomila, 1926). È la perfezione stessa ad essere un inganno, il fermo immagine di una vita asfissiata, defunta. Galiano non ha dubbi sull’argomento: «L’inganno della perfezione è tutto qui: noi vi aspiriamo molto spesso, ignorando quanto “perfetto” sia sinonimo di “finito” e quindi inerte, immobile, terminato.

Il problema quindi non è tanto nell’impossibilità della perfezione, quanto nel fatto che essa sia perdita di vitalità: è immutabilità, vita che si ferma, che non corre più da nessuna parte, che non ha più nulla da cercare e quindi da desiderare». La lettura de L’arte di sbagliare alla grande è pertanto un invito a lanciarsi, senza paura, anche ad occhi chiusi, dentro se stessi, senza la paura di riconoscersi come si è: uomini di carne e sbagli.

La vita balbetta, non è lineare, affatica. Ci sono dolori da affrontare, miraggi da sfatare, sogni da esaudire, realtà da attraversare e alla fine la domanda di ogni uomo, adulto o ragazzo, è inevitabilmente quella di chiedersi se esiste un metodo per essere felici, felici davvero, per sempre.

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Nel 2016, con Mondadori, prova a dare una risposta il professore di liceo Alessandro D’Avenia con il suo libro di grande successo L’Arte di essere fragili. Un titolo che porta in coda la presenza di un secondo insegnante, ben più antico, in questo viaggio di parole. Si legge infatti a seguire: Come Leopardi può salvarti la vita.

Ebbene sì, proprio il grande poeta di Recanati, le cui opere, intrise di una bellezza senza tempo, vengono evocate da D’Avenia per farne una matrice di remedia doloris. Tacciato di pessimismo, Leopardi riemerge, in queste pagine, come un uomo formidabile, qual era, capace di maneggiare l’infinito, desideroso di aggrapparsi alla vita con tutta la sua forza poetica, pur nel pieno di tempeste esistenziali che lo hanno sferzato. Professore 2.0 (suo il sito web www.profduepuntozero.it), D’Avenia ha una lucida idea dei ragazzi di oggi: «Mi sono convinto che gli adolescenti non hanno domande: sono domande. Riformulano con i loro silenzi gli stessi “perché” reiterati tipici dei bambini, ma su un piano diverso: il bambino chiede come mai ci sono le stelle, l’adolescente chiede come ci si arriva, perché la speranza è desiderio (de-sidera, distanza dalle stelle), la sua mancanza è un disastro (dis-astro, assenza di stelle)».

L’arte di essere fragili parte proprio dalle inquietudini e domande dell’adolescenza per poi attraversare la maturità e infine la consapevolezza di essere un’isola di “forse” con dei limiti: «L’arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente fragili e imperfetti». Un’arte a cui ha saputo ben adattarsi Leopardi «per dare un senso alla vita di tutti i giorni e non sprofondare nell’abisso del nulla. Questo è il combattimento […] di un grande predatore di felicità», dichiara D’Avenia in un’intervista.

Alle domande che si distribuiscono nel volume rispondono delle pagine che «non contengono soluzioni semplici, perché semplice la vita non lo è mai, e non lo è stata per Leopardi in particolare, ma suggeriscono come un po’ più semplici potremmo essere noi, con uno sguardo più puro sulla vita […] e la sua possibile felicità, che, come scrive Leopardi, non ne è che il compimento, per raggiungere il quale “è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro” (Zibaldone, 31 ottobre 1823)».

In copertina:
La morte di Socrate, Jacques-Louis David (1787)
Metropolitan Museum of Art, New York

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