SECOLARE GRAZIA - Tra le pagine del Nobel Deledda

SECOLARE GRAZIA - Tra le pagine del Nobel Deledda

Pronunciare la parola Sardegna rievoca, inevitabilmente, un dittico di significato su una terra che si esprime, da un lato, come leggendaria e primitiva - figlia di misteriose e antichissime civiltà - e dall’altro come una regione che, dall’Unità d’Italia - scuotendosi dal letargo millenario - si ammaestrò sulle innovazioni del tempo, siano esse nuovi impianti idroelettrici o salutari bonifiche, marcandosi di intuizioni per lo sviluppo economico di quel presente e del successivo futuro.

Quest’ultima tendenza, tuttavia, ebbe una tale esuberante vivacità da addomesticare, se non tentare di eclissare, la natura tradizionalistica e ancestrale della società sarda. Una natura che ben si conserva, ad ogni modo, nell’opera di Grazia Deledda, la quale, inconsapevolmente, ne divenne la custode. D’altronde la scrittrice, di cui quest’anno si celebrano i 150 anni dalla nascita, era essa stessa figlia di quel mondo leggendario, fortemente inquadrato in tradizioni sociali granitiche e dalla verve secolare. Nuorese di origine, figlia della classe semi-borghese / semi-rurale, Deledda, classe 1871, ebbe l’anima temprata da una formazione rigidamente orientata al senso del dovere, quello che, però, si anima dei precetti della Chiesa e di un’intransigente volontà deistica. Emblematico, a tal riguardo, il personaggio di donn’Anna in Anime oneste (1895), descritta, dopo aver subito la morte del figlio e della nuora, come «donna severa e triste, chiusa in un lutto eterno, quasi tragico, come è il lutto dei villaggi sardi».

Insignita, da alcuni critici, come autore verista, al pari del siciliano Giovanni Verga, Deledda, tuttavia, non imbarca i suoi personaggi su una “Provvidenza” in balia di sfortunate tempeste, denunciando di fatto il destino beffardo dei miseri, bensì li ritrae inseriti in un contesto sì semplice, ma lineare, senza smanie di ribellione. Oggi, in un periodo fortemente orientato alla parità di genere, alla libertà personale e di scelta, leggere Grazia Deledda è come fare un balzo indietro, rivedere la restaurazione del sistema patriarcale con i suoi doveri morali e obblighi sociali. Si rispolvera il concetto di “obbedienza”, sul quale si incentra tutta la retorica della famiglia basata su severissime regole educative, tra le quali la piena “sottomissione” al capofamiglia, la cui parola è legge, la cui volontà è dogma.  La donna, va da sé, vive in morigerata condizione.

Deledda è figlia di questo tempo, ma non lo disprezza, e nei suoi scritti appare sì una nota di piacevolezza nel ricordare l’atmosfera della famiglia, incastonata in una morsa di dettami, culla di preziosi e indimenticabili ricordi legati, giusto per fare un esempio, alle feste natalizie o pasquali, dove l’allegria e il volersi accostare l’un l’altro in conviviali banchetti riscaldava il cuore e rifocillava lo spirito. La studiosa Giovanna Chroust (Grazia Deledda e la Sardegna, Augustea 1932) declina l’ambiente della scrittrice sarda in un trittico fondamentale per comprendere a pieno le orbite valoriali di Grazia Deledda: «[…] dentro questa comunità compatta e severamente disciplinata vive come una forza potente il sentimento religioso cui si congiunge quello della rettitudine e dell’onestà intransigenti […]». Onestà, rettitudine e «l’Assoluto», ossia «un Dio che comanda il sacrificio, che comanda il dominio degli istinti». Deledda rispetta la sua fede, ne fa una livella etica nel suo processo esistenziale, fortezza per l’animo ed energia anche per fatiche gravose. Si ricorda ancora il personaggio di Anna Malvas di Anime oneste, «un’anima retta», che grazie al codex nel nome della fede, della famiglia e dell’abnegazione di se stessa, vive di una pace interiore che non teme affanni e gode del bene altrui, epilogando sulla vita come «una porta stretta, difficile a passare» e aggiungendo, nel corso della narrazione, che «se tutti pensassero che ogni cosa è vana e passeggera, quante ree passioni di meno e come meglio andrebbe il mondo!».

Attraverso Anna Malvas si legge l’identità della prima gioventù di Grazia Deledda, irriducibile paladina dei valori familiari da un lato e del mondo sardo suo contemporaneo - di cui narrò passioni ed errori - e dall’altro ambiziosa scrittrice di razza che volle superare, contro ogni contraddittorio sociale, i limiti di una donna il cui destino non poteva che essere la casa e i figli e viceversa. Se c’è una ribellione nella Deledda non è certo da ritrovarsi nei romanzi, ma nel suo stesso determinarsi come donna fuori le righe, al sapore di autonomia e sogni da realizzare - fossero anche lontani da quelli paterni e dagli stilemi della società natale.

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Nel romanzo autobiografico Cosima, pubblicato postumo alla morte della donna (15 agosto 1936), Deledda, attraverso la storia di una fanciulla che ambisce a divenire una scrittrice, mise nero su bianco l’indignazione della sua famiglia di fronte alla pubblicazione di alcune novelle sulla rivista “Ultima moda”. E ancora, scartabellando nella relazione epistolare tra una ventenne Deledda e il giornalista Stanis Mancas, in una lettera dell’08 giugno 1891 si legge: «Credevo di far onore e piacere ai miei compatrioti […] si figuri, dunque, il mio dolore, il primo dolore, che provai allorché, comparsi alla luce questi racconti, per poco non venni lapidata dai miei conterranei. […] Mi coprivano di maldicenze, di ingiurie, di ridicolo, arrivando perfino a dire che altri scrivevano nell’ombra ed io non facevo che firmare». Un malpancismo a cui si tessera anche la critica accademica locale: «Grazia Deledda», scrive lo scrittore Marcello Fois nella prefazione al libro Grazia Deledda, Tutte le novelle (Il Maestrale 2019), «ha il problema di essere donna. E donna nel solito universo in cui le questioni di genere inficiano le pari opportunità. Vale a dire che […] ha l’aggravante di essersi azzardata a un’autonomia stilistica, progettuale, di pensiero, che non era contemplata in quello, che, troppo superficialmente, viene definito “universo della scrittura femminile”». Una ribellione che non tradì, ad ogni modo, le sue origini, intessute in trame di romanzi ancora oggi letti e riletti, dove la sua gente poté e può riconoscersi con tutti i crismi delle fedi e dei sentimenti di una Sardegna leggendaria, senza tempo. Grazie alla scrittrice nuorese la letteratura sarda raggiunse il mercato internazionale, decidendo «l’affrancamento della scrittura sarda dalla condizione di ancella obbediente di quella nazionale» (M. Fois, 2019).

Di fatto, nella sua produzione letteraria, Deledda non solo descrive contesti socio-culturali da lei conosciutissimi e tipici della borghesia, ma rigurgita dalla memoria la fisionomie della società più popolare e pittoresca: personaggi dalla “barbarie primitiva” (G. Chroust, 1932). Sono maschere arcaiche, viventi in apparati rurali eroici e ancestrali.

Nel romanzo Colombi e sparvieri (1912) i protagonisti vivono in un mondo ispirato da reminiscenze storiche di antichissimi secoli: «Tutto il paesaggio ricordava l’epoca de feudatari, col paesetto aggruppato e recinto di rocce, coi sentieri che sembravano fatti apposta per gli agguati, con le figure solitarie incappucciate e armate che attraversavano a cavallo, guardinghe, le chine solcate da muricce a secco. Tutto aveva un senso di poesia antica e selvaggia». Muovono i loro passi in queste scenografie sovratemporali uomini, donne e bambini dal fascino ieratico e solenne, barbari e primitivi nell’apparenza e nell’animo. Dalle parole di Deledda, l’immaginazione ricostruisce volti dalle bibliche rughe e increspature del volto, come la parafrasi in carne ed ossa di volontà ermetiche ultraterrene attraverso cui si ammette il creato solo e soltanto in correlazione con Dio. In nomine Domini e non solo: in nome della famiglia i personaggi deleddiani accettano una gravosa disciplina, somministrata dai padri anche con la violenza, perché si riconosca sempre e in ogni circostanza la volontà dell’Assoluto, che poi si traduce in ciò che la comunità desidera per i suoi abitanti.

In Canne al vento, romanzo che consacrò Deledda come Premio Nobel nel 1926, si narra di don Zame, che ben rappresenta la cultura della disciplina. Si legge: «Don Zame dopo la morte della moglie, prendeva sempre più l’aspetto prepotente dei baroni suoi antenati, e come questi teneva chiuse dentro la casa, quasi fossero schiave, le ragazze in attesa dei mariti degni di loro. E come schiave esse dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e soprattutto non dovevano sollevare gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato loro come sposo. Ma gli anni passavano e lo sposo non veniva. E più le figlie invecchiavano, più don Zame pretendeva da loro una costante severità dei costumi». Una vera e propria tela famigliare rigida e dura in un concetto d’onore inviolabile che fa dei maggiori e più anziani i dominatori dei minori e più giovani.

Il teorema viene ben spiegato dalla nonna Agostina della famiglia Marini ne L’incendio nell’oliveto (1918): «La famiglia, si. Tutto si fa per la famiglia. I figli sono obbligati alla madre e al padre, e questi ai figli: e i fratelli ai fratelli. Senza di questo non si vive: è come l’albero col tronco che sostiene i rami, ed è nulla senza di essi: e una foglia fa ombra all’altra. Lo dice anche la Bibbia». La passiva accettazione della famiglia come metro dell’esistenza è vivaio per tutti e quando qualcuno tenta un soverchiamento delle regole, Deledda traduce questo comportamento come foriero di disgrazie e decadimento. È quello che accade a Bakis Zanche ne Le colpe altrui (1914), dove l’adulterio della moglie crea le condizioni per lo sfacelo della propria famiglia. Una colpa che chiama vendetta e Bakis, ripudiata la moglie Marianna, non ammette nessun rinsavimento sulla sua decisione, neanche di fronte alla morte del figlio Andrea: quando il ragazzo esanime viene trasportato sopra un carro che passa di fronte alla madre, il vecchio padre, anche di fronte al tragico evento, fa afferrare l’ex moglie dal servo facendola gettare in mezzo alla strada. Il tutto, come si è detto, è incollato da una religiosità severa, instillata dal timore di Dio e che unita alla disciplina anima le forme e i simboli del magma primitivo, regolato da verità profondissime e dai diktat che da essa scaturiscono. «È appunto quando noi ci dimentichiamo di Dio, il nostro padrone», afferma Predu Maria Dejana ne Il nostro padrone (1913), «quando vogliamo far giustizia da noi stessi, è appunto allora che diventiamo pazzi».

Non solo di parole, ma anche di fatti questo radicamento al sentimento cristiano si nutre nelle vicende dei personaggi della Deledda che, spinti da una profonda fede nella carità, non perdono tempo neppure a superare rancori e odi. In Cenere (1900) si ingolla un po’ di commozione nel leggere come zia Tatana, senza chiedere nulla, prende con sé il ragazzo Anania, figlio illegittimo del marito, allevandolo come suo. Da un lato la cristianità, dall’altra la cultura immateriale di saperi e credenze che poggiano sulla superstizione. Nel romanzo Elias Portolu (1900), il fratello del protagonista, Pietro, viene descritto come «superstizioso e un po’ pauroso. Credeva ai morti e agli spiriti erranti; e nelle lunghe notti della tanca, seguendo il gregge aveva più volte impallidito sembrandogli di veder guizzi misteriosi nell’aria, animali strani che passavano di corsa senza destare alcun rumore, e nella voce lontana del bosco, in quella immensa solitudine di macchie e di roccia, sentiva spesso lamenti arcani, sospiri e sussurri».

Come ogni terra di antiche civiltà, dagli substrati culturali riemergono prassi non convenzionali, tipici di una ritualità tribale che scongiura il male e lo esorcizza. Come non rimanere suggestionati dal coreutico rituale descritto in Naufraghi in porto (1920) contro il morso di una tarantola: «Il crepuscolo era freddo, verdognolo e luminoso. Un gruppo di persone, quasi tutte donne, nere sull’aria limpida, s’avanzava verso il rialzo, suonando e cantando. Isidoro capì di che si trattava e andò loro incontro. Le donne, una ventina tra vecchie e giovani, cantavano a mezza voce e con tono saltellante eppur melanconico, una bizzarra canzone, o meglio uno scongiuro contro il morso della tarantola, accompagnate dal suono monotono d’uno strumento primitivo, la serraia, specie di cetra con la cassa formata da una vescica di maiale secca». Dalla fede alla superstizione, infine all’istinto di sentimenti che emergono tremendi tra le pagine e parlano di odio. L’odio che si manifesta ora in calunnia e invocazioni di vendetta al cielo e ancora in epopee che coinvolgono nell’acredine persino interi paesi, come nella torbida diatriba tra intere famiglie raccontata in Colombi e sparvieri (1912).

La domanda sorge spontanea: fuori da questo complesso sistema, come si destreggiano i personaggi? Qual è la reazione di queste personalità così particolari al di fuori delle coste sarde, fuori dal contesto locale? La risposta è ben delineata in alcuni romanzi, tra cui si citano Nostalgie (1905) e Nel deserto (1928). In Nostalgie è facile riconoscere nella protagonista, Regina, i sentimenti e le emozioni di una Deledda giovane e inesperta che, dopo essersi sposata con Palmiro Madesani, trasferitisi a Roma nel 1900, si affaccia sul continente dopo una vita intera vissuta sull’Isola. Ne traspare un giudizio ruvido sulla società borghese romana, troppo coinvolta in problematiche, a dir suo, superflue, tanto da incombere in una lenta rovina tra ipocrisie, menzogne e volgarità. E ancora, scritta anni dopo, ritroviamo una storia simile in Nel deserto dove si narra di una fanciulla sarda di nome Lia Asquer che desidera ardentemente conoscere le città oltremare, lì sulla penisola. L’opportunità le viene concessa da un suo zio residente a Roma. Lei va, lo assiste, ma subito si accorge di come la Roma dei suoi sogni non coincide con la realtà e gli uomini non sono poi così generosi come pensava. Dopo la morte dello zio e dell’uomo che sposa nella capitale, Lia, ridotta in miseria, viene insidiata da diversi uomini per la sua bellezza, ed è costretta, delusa dalla situazione, a tornare nella sua terra d’origine. Una fuga “dal deserto” all’inizio e anche nel finale. E dove non c’è un viaggio verso il continente, ma il continente salpa e raggiunge con i suoi principi civici e democratici l’isola, ecco che avviene un agghiacciante scontro con la tradizione teocratica sarda, le cui vittime tornano ad essere quei personaggi che non riescono a gestire o a comprendere nuove situazioni, sprofondando in un caotico stato confusionale. Non sono più padroni di se stessi, scorticati degli ingranaggi delle credenze socio-culturali della loro terra natia. Emblematico in tal senso il già citato romanzo Naufraghi in porto (1920).

Non sempre, tuttavia, il mondo al di fuori dall’Isola è demonizzato e, anzi, si assiste nel 1927 alla pubblicazione del romanzo Annalena Bilsini, destinato a sdoganare le opportunità che si possono sfruttare anche in paesaggi antropici non isolani e isolati. Si narra di una famiglia colona sarda in ascesa sociale nel territorio della Pianura Padana, dove si trasferisce per lavorare in un podere. Sono persone nuove, più ottimiste, che non fanno della fedeltà alla propria regione natia una condizione che li relega a subire la paura di cambiare, di approcciarsi a nuovi sistemi valoriali. Anzi, «in questa società tutta protesa verso il futuro, e verso i beni materiali che terra e relazioni umane possono offrire a chi li sa adoperare, anche i drammi di tipo morale vengono più facilmente alla superficie e trovano la loro soluzione non nella restaurazione di una situazione anteriore e al fine della conservazione di una regola trascendente, ma sotto lo stimolo di una conquista da fare, di un nuovo bene materiale, immanente, da conseguire» (M. Giacobbe, Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna, Iniziative culturali, 1999). 

Come spiegare questo nuovo modo di concepire i cambiamenti della vita con una nota positiva, senza comunque dover rompere completamente con le proprie origini? All’indomani del Premio Nobel, sembra quasi calarsi nella scrittura della Deledda uno sfogo liberatorio: sì, si può emergere come donna, realizzarsi al di fuori di ciò che la società pretende e impone alla propria condizione, di genere nel suo caso. Annalena è una donna che soffre e attende, ma non è una vittima passiva del destino, bensì l’incarnazione di una volontà decisa e marcata. In un contesto di possibilità, questo atteggiamento non può che risultare positivo e destinatario di successi e riscatti personali e sociali. Annalena è Grazia Deledda dopo il riconoscimento dell’Accademia Svedese, una donna che ha certo costruito passo dopo passo la sua affermazione di scrittrice, anche con dolore, senza mai scoraggiarsi, ma puntando i piedi ed ostinandosi a marciare a testa alta. In una lettera dell’ottobre 1891 all’amico Luigi Falchi, la donna sottolinea il suo ardore e il suo senso di sacrificio: «Adoro l’arte e il mio ideale è di sollevare in alto il nome del mio paese, così mal conosciuto e denigrato al di là dei nostri melanconici mari, ne le terre civili. E lavoro, lavoro tanto, come un uomo, per la mia Idea, e riuscirò, benché sia una piccola personcina pallida e umile, che ha però lo spirito grande ardente come gli oscuri occhi andalusi».

A conclusione di questo breve saggio sulla scrittrice di Canne al vento (1913), si vuole lasciare la parola a lei stessa, al breve ma incisivo discorso che tenne all’ottenimento della laurea al Nobel. Una presentazione di se stessa in poche ma accurate righe che riassumono un’intera vita, una straordinaria vita:

“Sono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta. Senza vanità anche a me è capitato così. Avevo un irresistibile miraggio del mondo, e soprattutto di Roma. E a Roma, dopo il fulgore della giovinezza, mi costruì una casa mia dove vivo tranquilla col mio compagno di vita ad ascoltare le ardenti parole dei miei figli giovani. Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio. Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”. (Grazia Deledda, 10 dicembre 1926)

In copertina: Grazia Deledda
immagine di repertorio

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