HEMINGWAY 60 - Memorie italiane tra righe americane

HEMINGWAY 60 - Memorie italiane tra righe americane

A sessant’anni dalla morte, avvenuta il 2 luglio 1961, le mille e più avventure di Ernest Hemingway continuano ad affascinare migliaia di lettori. Sono centinaia e centinaia le biografie e gli approfondimenti che sviscerano il suo personaggio storico e letterario con le sue zone di luce e di ombra.

Se al nome della leggenda letteraria americana si associano città e nazioni che parlano inglese, spagnolo, francese e persino africano, le avventure di Hemingway, è risaputo, hanno anche una profonda anima italiana, frutto di molteplici contatti tra l’autore e il “Bel Paese”. Un rapporto speciale nella storia esistenziale dello scrittore, a tal punto da poter leggere tra le sue riflessioni: «I miei scritti dall’Italia hanno quel non so che di speciale che si riesce a mettere solo nelle lettere d’amore». La nascita di un amore che merita di essere ricordato attraverso alcuni significativi episodi di vita.

Il colpo di fulmine, o per meglio dire “di mortaio”, come si vedrà, si ebbe nel corso della Prima Guerra Mondiale. Era il 1917 quando, entrati in guerra gli Stati Uniti d’America, il giovanissimo Hemingway si arruolò come volontario, lasciando la patria il 23 maggio 1918 in direzione dell’Europa al seguito del corpo di spedizione americano del generale John Pershing. Pur immaginando lo scrittore-avventuriero impugnare uno Springfield M1903 e avanzare all’assalto delle trincee nemiche, al soldato dell’Illinois fu diagnosticato un difetto alla vista che lo portò a prestare servizio come autista di autoambulanza presso la IV Sezione della Croce Rossa americana di stanza sul territorio italiano, più precisamente nella cittadina veneta di Schio, ai piedi del monte Pasubio, in un lanificio abbandonato.

La IV Sezione, tra le attività, possedeva anche quella di pubblicare un giornale chiamato “Ciao”: il futuro Premio Nobel 1954 non esitò a farne parte immediatamente.

In linea di massima la vita a Schio fu per Hemingway abbastanza comoda, pur dovendo trasportare dal Monte Pasubio i soldati feriti guidando una Fiat. Il diciottenne di Oak Park, smanioso di azione e “disgustato” perché non riusciva a vedere la guerra vera, chiese di potersi avvicinare al fronte italiano orientale e, accontentato, ebbe modo di soggiornare per un breve periodo a Gorizia. Ma è solo successivamente che, a seguito di una nuova richiesta di trasferimento, poté vivere il dramma della trincea come assistente nei pressi della riva del Basso Piave, vicino a Fossalta di Piave e a Monastier di Treviso.

La sua mansione fu direttamente collegata allo spaccio militare localizzato a pochi chilometri dalle azioni belliche e lì, sotto l’assordante rimbombo dei cannoni, poté finalmente avere un contatto diretto con i militi italiani. Facendo la spola con una bicicletta dallo spaccio alla linea di trincea, si avvicinò lì dove campeggiava sempre di più il lezzo della morte, rischiando di diventare, lui stesso, una vittima.

Dopo sei giorni di intensa esperienza da messo di beni di conforto, ebbe la cattiva sorte, vicino a Fossalta, di essere colpito dalle schegge della bombarda austriaca “Minenwerfer”. Era la mezzanotte dell’8 luglio 1918. Furono attimi concitati e terribili poiché, con le gambe dilaniate dalle schegge, cercò di mettere in salvo un soldato italiano ferito: dopo cinquanta metri una mitragliatrice nemica colpì in pieno il suo ginocchio destro. Trascinandosi, svenne, e di lì a poco fu tratto in salvo.

Il processo di cura durò diversi giorni: il giovanissimo Hemingway fu prima portato in un ospedale da campo vicino a Treviso e, successivamente fu ricoverato a Milano, direttamente all’interno del campo della Croce Rossa americana. Per tutto il resto del 1918, oltre che riprendersi dal trauma fisico, Hemingway intraprese una lunga corrispondenza con i propri familiari e, si racconta, il padre lo invitò spesso a tornare in patria. A questo legittimo desiderio il ragazzo, animato da moti di appartenenza cameratesca, rispose con parole accorate in una lettera del 18 ottobre, parte della quale fu riletta durante il funerale dello scrittore, nel luglio 1961: «Non voglio tornare a casa fino alla fine della guerra […] Siamo venuti qui dopo essere stati riformati dal servizio militare. […] Ora ho una gamba e un piede malati e nessun esercito al mondo mi prenderebbe. Ma qui posso essere utile. […] Morire», continua, «è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero. Se avessi dovuto morire sarebbe stato molto facile. Proprio la cosa più facile che abbia mai fatto. […] E come è meglio morire nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse».

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Parole che, nel contesto del campo ospedaliero, videro loro accostarsi i sussulti amorosi dello scrittore verso la sua prima e vera fiamma, Agnes von Kurowsky, che rimase colpita, come la maggioranza delle sue colleghe infermiere, dal fascino “machista” del soldato, ormai “tenente” dell’Illinois. Un amore che rimase platonico a suon di romanticissime lettere, per volontà soprattutto della ragazza, e che ebbe, tuttavia, una fine a cui Hemingway si dovette a malincuore arrendere. Le personali cronache legate alla Prima Guerra Mondiale ispirarono l’ossatura del romanzo Addio alle armi, pubblicato con il titolo originale A Farewell to Arms nel 1929, e diedero contenuto alla medaglia d’argento al valor militare italiana.

Le più recenti biografie inquadrano il soggiorno di Hemingway a Taormina, in Sicilia, nel periodo subito posteriore alla Prima Guerra Mondiale. Gli fu infatti raccomandata una località marittima dove poter recuperare la salute a seguito del ferimento del 1918. Il luogo scelto fu l’antichissima città di Tauromenion, ospite peraltro presso la villa del duca di Bronte, Alexandre Nelson-Hood, pronipote del celebre ammiraglio Orazio Nelson. Una recente indagine sull’autore da parte del giornalista Gaetano Saglimbeni ha confermato che, durante la sua permanenza in questi luoghi, Hemingway scrisse il suo primo racconto dal titolo The Mercenaries, la cui trama ha come oggetto un duello fra due animosi uomini, coinvolti entrambi nella passione per una stupenda donna siciliana.

La voglia di avere un rapporto a stretto giro con la storia contemporanea, portò Hemingway ad avvicinarsi al giornalismo, nel ruolo di inviato e dal dicembre 1921, presso la redazione del Toronto Daily Star. Per questa testata lo scrittore approfondì diversi avvenimenti internazionali e, nel 1922, si ritrovò incaricato di raggiungere Genova alla volta della Conferenza Internazionale Economica, conclusasi con l’accordo di Rapallo.

In un “Grand Tour” speciale condiviso insieme alla prima moglie Hadley Richardson, in cui rivide luoghi associati ai suoi giorni da soldato nella Grande Guerra, Hemingway segnò in agenda un appuntamento a Milano, nella sede del quotidiano “Popolo d’Italia” che gli sarebbe valso un confronto con il suo direttore: Benito Mussolini.

L’incontro avvenne nel mese di giugno, a pochi mesi dalla “Marcia su Roma”, e innescò nella mente dell’inviato americano la costruzione di un profilo positivo del duce. Scrisse: «Non è il mostro che è stato dipinto», riconoscendogli la tempra di vero patriota e ostacolo vivente dei venti sovversivi che imperversavano nello scenario politico europeo.

Un secondo incontro avvenne in Svizzera, a Losanna, nel gennaio del 1923, quando il Capo del Governo italiano accettò di aprire un dialogo con la stampa estera: da questo secondo match Mussolini non uscì illeso dalla penna di Hemingway, all’epoca ventiquattrenne. L’autore raccontò infatti che, una volta entrato nella stanza della conferenza stampa, il duce si mise a sedere alla scrivania, «intento a leggere un grosso libro con il famoso cipiglio sul volto». Con fare discreto, il giornalista americano gli si avvicinò, volendo conoscere cosa attirasse così profondamente il duce alla lettura. Con suo stupore, ciò che vide fu un dizionario francese – inglese, al rovescio.

A seguito di questo ‘inciampo’, Hemingway vergò frasi spietate che gli valsero soprattutto il doversi tenere distante dall’Italia: «Mussolini è il più grande bluff d’Europa. Anche se domattina mi facesse arrestare e fucilare, continuerei a considerarlo un bluff. Sarebbe un bluff anche la fucilazione. Provate a prendere una buona foto del signor Mussolini ed esaminatela. Vedrete nella sua bocca quella debolezza che lo costringe ad accigliarsi nel famoso cipiglio mussoliniano, imitato in Italia da ogni fascista diciannovenne. Studiate il suo passato. Studiate quella coalizione tra capitale e lavoro che è il fascismo e meditate sulla storia delle coalizioni passate. Studiate il suo genio nel rivestire piccole idee con paroloni. Studiate la sua predilezione per il duello. Gli uomini veramente coraggiosi non hanno nessun bisogno di battersi a duello, mentre molti vigliacchi duellano in continuazione per farsi credere coraggiosi. E guardate la sua camicia nera e le sue ghette bianche. C’è qualcosa che non va, anche sul piano istrionico, in un uomo che porta le ghette bianche con una camicia nera. […] Naturalmente gli inviati speciali dell’epoca napoleonica possono aver notato le stesse cose in Napoleone e gli uomini che lavoravano al “Giornale d’Italia” ai tempi di Cesare possono aver scoperto in Giulio le stesse contraddizioni, ma dopo un attento studio sull’argomento mi pare che in Mussolini ci sia non tanto Napoleone quanto Bottomley, un enorme Horace Bottomley italiano, bellicoso, duellista e riuscito».

Raffreddatasi l’artiglieria delle feroci battaglie del Secondo Conflitto Mondiale, Hemingway recuperò il suo rapporto con l’Italia, e fu un “arrivederci”, come si è visto fin dal 1923. Nell’anno 1948, infatti, lo scrittore americano, ormai celebre e affermato, fu ospite della città di Genova insieme alla quarta ed ultima moglie Mary Welsh: i due ebbero il privilegio di essere accolti, eccezionalmente, dall’Hotel Concordia, chiuso durante la stagione autunnale.

Dal Mar Ligure al Mar Adriatico, nell’ottobre dello stesso anno, approdò a Venezia con onori e nuove onorificenze, tra cui la nomina a Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di Malta. Intorno a quell’esperienza è interessante quanto riporta Fernanda Piovano nella raccolta di memorie che parla del suo sodalizio professionale con l’autore americano (Hemingway, Euroclub 1988).

Egli abbandonò, infatti, in una lettera alla scrittrice italiana, le sensazioni che gli ispirava la laguna veneziana, facendo emergere una vena narcisista ben documentata nelle centinaia di biografie dell’autore: «Fernanda, stiamo così bene qui che sembra incredibile. Sedere sul Canal Grande e scriverti vicino dove hanno scritto Mr. Byron, Mr. Browning e Mr. D’Annunzio […] fa sentire Mr. Papa [il soprannome che l’amico Gerald Murphy diede ad Hemingway NdR] come se fosse finalmente giunto al suo luogo giusto. Penso che dovremmo comperare un palazzo, fare un duello tutte le mattine e divertirci sul serio. Ma non so come potrei divertirmi più di quanto mi sono divertito quasi ogni giorno della mia vita tranne quando le persone che amavo erano ferite, o malate, o nei guai, o eravamo a corto di munizioni di mortaio».

Tra il 1948 e il 1954 sono numerose, di fatto, le frequentazioni dell’autore di famiglie aristocratiche friulane quali Mocenigo, Robilant, Zuzzi, Gaspari, Biaggini, De Asarta, Mangilli, Kechler, Hierschel de Minerbi, Milanese.

Nel 1948, le giornate del futuro Premio Pulitzer del 1953, ottenuto per Il vecchio e il mare, vennero “ormeggiate” in piacevoli battute di caccia all’anatra insieme al barone Nanyuki Franchetti, nell’area della Bassa friulana. È nel contesto di una di queste attività venatorie, esattamente nel dicembre di quell’anno, che si deve individuare la nascita del romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi (Across the River and Into the Trees, 1950): la storia di un colonnello di nome Richard Cantwell che, di base a Trieste, si reca nei weekend a Venezia e che ha il piacere di incontrare la contessina Renata, la cui giovinezza porta nuovo vigore al protagonista cinquantenne, chiuso nella sua amarezza e inasprito dalla guerra.

Renata fu la traduzione in narrazione di Adriana Ivancich, la cui famiglia fu una della maggiori proprietarie del territorio friulano e che Hemingway ebbe l’occasione di incontrare a Latisana, per caso e durante una giornata in compagnia del già citato conte Franchetti e del conte Kechler.

Nell’attraversare il comune in provincia di Udine i tre si imbatterono nella ragazza, che così ricorda l’incontro nel suo libro La Torre Bianca (Arnoldo Mondadori Editore 1980): «Un colpo di clacson. Mi guardo attorno ma non vedo nessuno. Un altro colpo di clacson. Bel suono. Davvero una bella macchina. Mi pare di aver sentito gridare il mio nome, ma forse ho sbagliato, non c’è nessuno. La macchina blu retrocede, si avvicina, si avvicina proprio a me. Lo sportello posteriore si apre, s’affaccia la testa di Carlo: “Su presto, entra!”. Non sento più freddo né umido, sono in un azzurro deliziosamente molleggiato che si muove in silenzio. “Non ti aspettavi di trovarmi su una Buick, vero? Scusa il ritardo, ma siamo passati da Fraforeano da Titti [conte Alberto Kechler NdR] e ci siamo messi a parlare di guerra, e sai come è Ernest quando comincia a parlare di guerra. A proposito, conosci Ernest, Ernest Hemingway? Ernest, questa è Adriana”. Le spalle massicce si voltano e l’uomo seduto davanti ora è girato verso di me. “Terribly sorry, Adriana. It’s all my fault. I hope you will forgive me” dice. Colpa mia. Spero tu voglia perdonarmi».

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Adriana e l’incanto di quei paesaggi tessero la tela di parole del romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi in cui è possibile riscontrare, a chiusura di questa carrellata di memorie, l’impronta dei sentimenti dell’autore che dell’Italia aveva creato dentro di sé un piccolo altare di sentimenti da dedicarle: «Mi piacerebbe essere sepolto qui sui bordi della tenuta, ma in vista della vecchia casa elegante e dei grandi alberi alti. […] Sarei una parte del suolo dove i bambini giocano la sera e la mattina forse continuerebbero a allenare i cavalli, a saltare e gli zoccoli calpesterebbero l’erba e le trote affiorerebbero nello stagno quando ci fosse uno sciame di moscerini».

In copertina: Hernest Hemingway
foto di archivio

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