CLAUDIO VIEZZOLI - Dal rumore dei numeri al silenzio del vento

CLAUDIO VIEZZOLI - Dal rumore dei numeri al silenzio del vento

Per molti anni, Claudio Viezzoli ha lavorato nel mondo della finanza, tra numeri, riunioni e caffè da dimenticare. Indossava abiti eleganti, parlava il linguaggio dei mercati e delle strategie di crescita. Poi, a un certo punto, ha deciso di “laurearsi” da quella vita — come ama dire lui — e seguire un richiamo più autentico: quello della natura selvaggia.

Così è nato Wild Routes, un progetto dedicato a chi non teme di avventurarsi oltre le strade battute, là dove il tempo scorre più lentamente e il silenzio ha un suono profondo. Dall’Africa all’America Latina, fino all’Asia, Claudio accompagna viaggiatori — non turisti — alla scoperta di paesaggi remoti e incontri autentici, attraverso la lente della fotografia naturalistica.

Per lui, fotografare la fauna selvatica non significa solo scattare, ma soprattutto imparare a stare fermi, osservare, accettare l’attesa. A volte si torna con l’immagine perfetta, altre volte no — ma si torna sempre cambiati.

Claudio, ha definito il suo passaggio dalla finanza alla fotografia come una “laurea”, più che un ritiro. Cosa rappresenta per lei questa “graduation”?

Il passaggio dalla finanza alla fotografia, va detto, non è proprio la traiettoria più lineare. Ma forse era questo il mio scopo: trovare un’orbita sufficientemente lontana, così da non essere risucchiato nelle solite cose già fatte e nei comportamenti già avuti. In quella distanza siderale c’era spazio per nuove sfide, nuove possibilità, e per quella sensazione che si prova quando si ricomincia da zero.

Nelle sue note biografiche parla del richiamo del vento, della polvere, della luce. C’è stato un momento preciso in cui ha capito che la fotografia naturalistica sarebbe diventata la sua nuova strada?

La natura è sempre stata lì, a margine del mio sguardo. Devo questa passione alla fortuna di aver sperimentato, fin da piccolo, foreste, montagne e paludi varie, capendo che l’universo è molto più interessante quando lo si osserva da una tenda piuttosto che da casa. La fotografia è arrivata più tardi. Ero in Tanzania negli anni ’80 per tutt’altro motivo, eppure capitai nel Serengeti. Ricordo la prima luce che colpiva la pianura: vasta, assoluta. Fu lì che capii che volevo fermare quella luce. Da allora ho scattato migliaia di fotografie, la gran parte della quali di dubbia qualità, e inseguito tecnologie, lenti, macchine. Dai rullini fino al prodigio del digitale. E poi i programmi di post-produzione, che permettono al ricordo di piegarsi al sentimento. Ma tutto è partito da lì: da un bagliore che chiedeva di essere custodito.

Wild Routes nasce come un progetto per chi non teme la fatica e il silenzio. Come è nata questa idea e cosa differenzia i suoi viaggi da un classico safari fotografico?

Nasce nel 1998, con il mio primo viaggio nel Delta dell’Okavango, in Botswana. Ne avevo sentito parlare come di un luogo difficile da raggiungere, nascosto dietro fiumi mobili. In quel viaggio bisognava essere tutto: guida, autista, cuoco, fotografo, meccanico. Nessuno ti diceva dove svoltare o quando fermarti. Non c’era nulla di più affascinante che disegnare il proprio itinerario.

Ho capito allora che queste erano le esperienze che facevano per me. Da allora ho rifatto tanti di questi viaggi, guidato migliaia di chilometri e ridisegnato tanti itinerari - negli ultimi anni, coinvolgendo anche amici, familiari e colleghi. Ogni viaggio era nuovo. Ogni ritorno a casa, un’assenza che si allungava dentro.

Così, nel momento in cui sono stato libero, la voglia di condividere queste sensazioni mi ha spinto a creare Wild Routes, un posto dove si costruiscono itinerari per viaggiatori, non turisti.

Lei dice che la fotografia di natura non è questione di scatto, ma di “stare fermi, in silenzio, sperando e non sperando troppo”. Ci racconta un episodio in cui questa filosofia le ha regalato uno dei suoi scatti più significativi?

Essere nel posto giusto al momento giusto è ciò che conta davvero. Il problema è che il “momento giusto” raramente coincide con il luogo in cui ti trovi.

Potrei raccontare molti episodi, ma mi limiterò a un’occasione recente. Sono appena tornato dal Pantanal, in Brasile. Ho avuto la fortuna di trovarmi a pochi metri da un grande giaguaro maschio, mentre puntava un enorme caimano di almeno due metri. L’ho visto afferrare la preda, soffocarla, trascinarla dietro la vegetazione che si stende lungo la riva del fiume Cuiabá. Se guardo il video, quella scena dura poco più di due minuti ma, prima di vivere quel momento incredibile, c’erano stati cinque giorni di navigazione, per dieci ore al giorno, lungo fiumi e canali. Innumerevoli tentativi falliti, giaguari appena sfiorati dallo sguardo, un caldo torrido che appiccicava la pelle, l’umidità che si infilava in ogni angolo e gli insetti, instancabili, che ci tormentavano.

Tra Africa, America Latina e Asia, ha esplorato paesaggi estremi e culture remote. Qual è il luogo che più l’ha trasformata come persona, oltre che come fotografo?

Penso a Mabuasehube, nel deserto del Kalahari. Uno degli angoli più remoti dell’Africa. Un posto che richiede un fuoristrada affidabile e scorte di cibo e acqua. Mabuasehube è un luogo che resiste al tuo arrivo. La ricompensa è un isolamento totale. Per giorni puoi restare lì, con l’automobile più vicina a cento chilometri di distanza e, su quelle piste sabbiose, quella distanza si traduce in una giornata intera di guida.

Mabuasehube ti circonda di leoni, notte e giorno. Quando esci dalla tenda, devi controllare che non siano nel campo. Quando cucini sul fuoco, soprattutto di sera, ti guardi sempre intorno, consapevole che potrebbero arrivare di soppiatto. Un luogo incredibile. Un luogo che mette alla prova le tue capacità, che ti riporta all’essenza.

Nei suoi portfolio e libri — da African Wildlife a Okavango, passando per Amazonia and Pantanal — si percepisce una tensione tra bellezza e precarietà. Quanto il suo lavoro può essere considerato anche un atto di testimonianza ecologica?

La testimonianza richiede un impegno più profondo di quanto io sia mai stato in grado di assumermi. Quando penso a chi ha realmente testimoniato la fragilità del nostro mondo, mi viene in mente Sebastião Salgado. E quando rifletto sugli etologi che hanno cambiato la nostra comprensione dei vari ecosistemi, penso a Jane Goodall, Cynthia Moss o Ian Douglass-Hamilton. Per ora, più modestamente, mi limito ad ascoltare e ad apprendere dal loro lavoro: un Olimpo d’immagini e visioni che continuo a considerare fonti inesauribili di ispirazione. Tuttavia, ogni volta che viaggio, sento il privilegio - e la responsabilità - di poter osservare creature che forse, tra pochi decenni, esisteranno solo nei ricordi o in frammenti di habitat protetti.

In molte sue immagini si respira un senso di sospensione, di attesa. Quanto conta, per lei, il rapporto con la luce e con il tempo naturale — in contrapposizione al tempo “umano”?

Può sembrare banale, ma ogni ritorno in Africa è un ritorno anche all’alba e al tramonto; alla luna, che appare silenziosa, eppure comanda. La luce definisce ogni fotografia. Prima di partire, guardo sempre il calendario lunare. Occorrono cieli neri, aria ferma, assenza di nuvole per fotografare il cielo notturno e questo richiede pianificazione. E allora ci si accorge che viaggiare nella natura non è tanto una questione di tempo. È una riscoperta del cielo.

La sua recente esibizione a Londra ha raccolto grande attenzione. Come è stata accolta dal pubblico e cosa ha voluto comunicare con quella selezione di opere?

Questa è stata la mia prima esibizione e la sfida più grande non è stata tecnica, ma mentale. Ho dovuto compiere un passaggio profondo: da fotografo a narratore. E non è la stessa cosa.

Il fotografo è immerso nel momento dello scatto. Scommette con la luce, con il tempo, con i movimenti dell’animale. Il narratore, invece, deve uscire da quel momento. Deve creare un ponte tra chi guarda e chi ha guardato per primo. In questo senso, sono contento di aver cominciato a raccontare una storia.

Guardando indietro, dal mondo degli affari ai deserti africani, cosa direbbe oggi a chi sente lo stesso “richiamo” ma non ha ancora trovato il coraggio di seguirlo?

L’unico consiglio che mi sento di dare è di non aspettare. Se avete desiderio di viaggiare, di sperimentare la natura, che siano foreste, mari o savana: non aspettate. Domani potrebbe essere troppo tardi.

In copertina: Dead Vlei, Sossusvlei, Namibia, 2013
All’interno:
- Rinoceronte bianco, Zimanga Reserve, Sud Africa, 2022
- Claudio Viezzoli, ritratto
Immagini per gentile concessione di Claudio Viezzoli

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