IL SERGENTE NELLA NEVE - La “storia umile” del soldato Mario Rigoni Stern

IL SERGENTE NELLA NEVE - La “storia umile” del soldato Mario Rigoni Stern

Il primo novembre 1921, nacque ad Asiago un uomo il cui destino lo avrebbe reso una delle testimonianze più autorevoli e vivaci della dura e contraddittoria realtà della Seconda Guerra Mondiale: Mario Rigoni Stern.

Imbrigliato nelle maglie dell’esercito come sergente maggiore, si potrebbe enumerare la sua esperienza di guerra in poche battute, avendo partecipato come alpino alle campagne militari di Francia, Grecia, Albania, Jugoslavia e ancora, tra il 1942 e il 1943, alla ritirata di Russia con il battaglione “Vestone” dell’ARMIR. Ridotto poi prigioniero dai tedeschi in Germania, Lituania, Slesia e Stiria, nei campi di prigionia il “sergentmagiù” fu obbligato a lavorare in miniere di carbone e ferro e, nonostante gli stenti, trasfuse i propri vividi ricordi in annotazioni adoperando mezzi di fortuna.

Come molti reduci, tornato «con i pidocchi, gli stracci e la pelle attaccata alle ossa» presso la sua città natale, non volle più allontanarsi da essa, senza mai dimenticare i terribili ricordi degli anni ’40, intessendo con quegli appunti vergati “per strada” un’importante deposizione di fatti accaduti, veicolata a mezzo stampa, che avrebbe gettato luce sugli episodi storici. Uno scritto che non nasceva dalla lustrata ghirlanda di un memoriale picchettato da altisonanti mostrine ma dall’impolverata razza di chi, da sottoposto, ebbe a subire scelte e a ingoiare il sangue amaro del dolore degli uomini, sia dei vinti che dei vincitori. 

Quando Rigoni tornò dalla guerra, si legge in Non andammo in Canada, pubblicato nel 1973 ne “Il Ponte” di Elio Vittorini, si sentiva «solamente un povero soldato Sveik in congedo, un manovale disoccupato con dentro qualche curiosità […]. Andavo per i boschi a far legna masticando ramoscelli di larice; vestito con i resti delle divise degli eserciti che avevano scorrazzato per l’Europa, con un libro nello zaino della naia». Quei cinque lunghi anni lo percossero nel cuore, bruciandolo dolorosamente: niente trionfalismi, niente entusiasmo, solo un grave lascito che non poteva, comprensibilmente, lasciarsi alle spalle, al contrario di molti altri combattenti che, con la Liberazione, lasciarono obliare gran parte delle loro memorie.

Rigoni non rimosse, ma si impose di ricordare, nero su bianco, il suo punto di vista, realista e crudo: «[…] scrivevo fino al crepuscolo della sera (alle due del pomeriggio era già buio) e cercavo di non rompere la punta della cortissima matita. Ogni notte ricordavo, ogni mattina riprendevo a scrivere. Perché l’ho fatto? Non certo con la presunzione che il mio scritto venisse stampato o letto. Mi sembrò necessario, allora, e urgente, dovermi liberare da qualcosa che avevo dentro, e realizzare tutto in parole con vocali e consonanti. Fissare quello che avevo visto per poterlo sempre ricordare. Non era un diario personale: dovevo dire quello che era accaduto a migliaia di uomini come me in quel dato periodo della guerra. Senza la strategia e la tattica, la scienza della guerra: narrare solamente una condizione umana. Tutto qui» (dalla presentazione dell’autore in Il sergente nella neve, Einaudi 1965). 

Qualche anno dopo, nel 1953, «quel fascio di carte legate con uno spago» fu onorato da Einaudi con una pubblicazione dal titolo Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, la cui prefazione arruolò la penna di Elio Vittorini, che volle identificare in quelle memorie una nuova Anabasi (L'Anabasi è l'opera più famosa del soldato professionista e scrittore greco antico Senofonte. Narra la spedizione di un grande esercito di mercenari greci ingaggiati da Ciro il Giovane per aiutarlo a impossessarsi del trono di Persia da suo fratello, Artaserse II, nel 401 a.C., n.d.r.) per quello stile sì semplice, ma scevro da sentimentalismi e polemiche. L’opera si innesta, di fatto, in una nuova visione della letteratura italiana a tema bellico, fino al primo Novecento troppo legata a soluzioni arzigogolate e pullulanti di oratoria, con contenuti idealizzati.

Quello che Rigoni offrì fu una singolare prospettiva, meno letteraria forse, ma che non scendeva a patti con la pura, e a volte teatrale, memorialistica del Dopoguerra. Ne Il sergente nella neve l’autore descrisse la guerra, il massacro di soldati e civili, di ripiegamenti, con la tara della realtà, senza stravolgerla, senza mai farsi coinvolgere più del dovuto dalle emozioni o dagli eventi.

Il sergente maggiore, tra le pagine del libro, resta un uomo fino alla fine, come puro soggetto della natura e della storia. Non c’è ideologia che vela e distorce i fatti, ma la guerra è svestita e presentata come il fenomeno che è stato e sarà sempre: un evento catastrofico e mostruoso. Si direbbe, infatti, che, per Rigoni, la divisa fu un vestito obbligato, senza mai penetrargli sottopelle, folgorandolo nell’intimo, come accadde per altri, da visioni propagandistiche.

È qui la grande differenza, nel post ’45, tra l’Italia delle «sfilate con bandiere» e l’Italia di chi pretendeva una ricostruzione dei fatti partendo dal setacciamento delle verità dai tricolorati rituali nazionalistici in chiave politica. Il racconto de Il sergente nella neve fu scritto, all’epoca, dal pugno di un uomo comune, un combattente che ha visto con i propri occhi e vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra, ma anche un soldato la cui terrificante esperienza lo ha portato a riflettere e a non trasmettere la cultura dell'odio.

In un’intervista ad introduzione del proprio libro Mario Rigoni Stern (“La Nuova Italia”, n. 184, aprile 1982), lo studioso Antonio Motta chiede al già alpino se “esistono o sono mai esistite guerre giuste”. Rigoni, in punta di fioretto, non abbandona la risposta a futile retorica: «Forse sono semplicista, ma le guerre giuste sono quelle di difesa da un’aggressione. Noi italiani, purtroppo, tranne che per la Resistenza, siamo sempre stati dalla parte degli aggressori. […] Giuste possono essere le rivoluzioni quando i popoli si ribellano, ma la violenza in sé ha sempre qualcosa che fa orrore». Un atteggiamento che è ben chiaro tra le righe dei suoi scritti, lì dove anche il termine “nemico” subisce dallo scrittore una revisione semantica: «Il nemico è una parola che non uso. Nel “Sergente nella neve” la parola "nemico" non c'è: parlo di "russi", dico "loro" ma "nemico" mai. Per me quelli non erano nemici: quando ero in Grecia o sul fronte francese o in Russia non li consideravo nemici. Il nemico bisogna conoscerlo, bisogna sapere cosa ti ha fatto. Il nemico è uno che ti ha offeso o uno che ti ha fatto del male. Ma loro non mi avevano fatto niente, non mi avevano offeso e allora la parola nemico nei miei libri non c'è. Alla parola nemico preferisco dire "quello che ti è di fronte" e che ti può essere avversario. Ma anche io sono a mia volta un nemico: la parola nemico è abbastanza relativa. I nemici sono uomini simili a noi: anzi hanno qualcosa in più di noi. Nel caso di guerra, dove siamo andati noi in quegli anni dal 1940 al 1945 loro avevano qualcosa in più: difendevano la loro terra ed erano dalla parte della ragione. Noi potevamo essere loro nemici. Mentre loro erano nostri nemici nel senso che ci sparavano, ma giustamente anche» (Da un’intervista a cura di Elisabetta Menetti, 2005).

È la consapevolezza lucida di un uomo di pace, nato nel silenzio della neve di quel suo amato altopiano di Asiago e che di quella neve purtroppo, lontano da casa, su terra russa, dovette farne inevitabilmente lo scenario della sua rocambolesca esperienza di guerra. I morsi di quel gelo sull’anima non gli si cauterizzarono mai, non ibernando sentimenti e sensazioni, ma lasciando che Il sergente nella neve divenisse l’uniforme di tutti, presenti, pur a distanza di tempo, sul fronte orientale insieme all’autore asiaghese e a quei soldati, italiani, tedeschi o russi, che, volenti o nolenti, si erano ritrovati a fare i conti con il tempo, la fame, il dolore, la morte e, se non morti, con l’alienazione dalla società, da se stessi.

Giuseppe De Robertis, già nel 1953, sul “Nuovo Corriere” di Firenze elogia la pubblicazione di Rigoni come un libro che «ha una sua struttura, e sta tra un cominciamento che attacca d’impeto, come se la materia ancora gli bruciasse ed egli ne fosse sopraffatto, quasi intonando una “Cassa” di canzone di gesta». Rigoni inaugura la narrazione con tanfi, rumori, proiettando il lettore in un determinato momento della sua esistenza: il puzzo del grasso sul fucile mitragliatore arroventato, il suono di stivali sulla neve, e, in un desiderio di pace, il racconto, attraverso gli occhi del giovanissimo alpino, apre sul cielo stellato che spadroneggia nelle notti gelide sulle rive del Don, lì dove ci si può concedere un po’ di poesia osservando il «quadrato di Cassiopea», oscurato di giorno dai pali del bunker.  

Bastano poche pagine perché poi inizi il dramma sotto il ruggito di una katiuscia e «le sue settantadue bombarde». Sulla linea di trincea che partiva dal Golfo di Finlandia e scendeva fino al Mar Nero e al Caucaso, tra l’inverno del 1942 e quello del 1943, il plotone degli alpini a cui appartenne Rigoni era un tassello dell’immenso dispiegamento di forze di ogni nazionalità che si distribuiva lungo quella linea. Il suo gruppo occupava la parte dove il Don creava una grande ansa che lo avvicinava al Volga. Da un lato gli italiani e dall’altra parte del fiume i russi «che difendevano la loro terra». Gelatosi il corso d’acqua, racconta Rigoni, i russi andarono all’attacco e quella che doveva essere una guerra di conquista, divenne la «tragedia del ritorno a casa»: «questo libro non è certo un’avventura. […] Fummo circondati: dissero di arrenderci e non lo facemmo. Volevamo solo tornare a casa nostra, tra i nostri monti lontani, non fare altre guerre, non subire o imporre violenze, sofferenze e morte. Eravamo in tanti, migliaia e migliaia: i più non sono tornati». 

Pagina dopo pagina la testimonianza passa in rassegna i volti di persone vere, veri i nomi, vere le storie e le tragedie che li hanno colpiti nell’imbarazzante e disastrosa ritirata delle forze armate della Germania nazista e dei suoi alleati dal colosso sovietico. Si comprende quasi nell’immediato come l’intenzione dello scrittore non sia stato quello di una mera descrizione dell’episodio bellico, ma più profondamente sia stato quello di trattare la storia di uomini in guerra contro altri uomini: «La Storia con i suoi fini assoluti da raggiungere, che sono al di sopra delle migliaia di piccoli uomini che formano il Vestone, il Valchiese, il Morbegno. Questa storia non gli interessa perché non è abbastanza storia; non è abbastanza costruzione della ragione e dell’intelletto. Le storie di Rigoni sono storie di alpini che vivono insieme, che pensano, che hanno paura, che soffrono» (A. Motta, op.cit., 1982). 

La pubblicazione de Il sergente nella neve scatenò la critica, attirandosi un nutrito appoggio da parte di autorevoli personalità nel mondo dell’editoria e con un successo che portò in un anno a tre ristampe del volume, aggiudicandosi, nel corso del 1953, persino il prestigioso Premio Letterario Viareggio per l’Opera prima. Il giornalista Domenico Porzio, in un articolo del 30 aprile 1953 su “Oggi”, etichettò il volume come «il più bel libro uscito in Italia dal 1945 ad oggi […] Il primo libro vero, non falsato da nessun intento romanzesco, uscito sulla guerra in Russia e sull’ultimo conflitto».

Il 10 maggio dello stesso anno Carlo Bo ne “La Fiera Letteraria” scrive che «Il Rigoni è davvero un testimonio puro […] e ci dà dei ricordi della ritirata di Russia che non potremo dimenticare facilmente» e, ancora, Arnaldo Bocelli ne “Il Mondo” del 20 giugno 1953: «Rigoni elude i pericoli del grezzo documento con l’intensità di un ritmo narrativo che della rievocazione fa una continua invenzione, tanto più suggestiva, poeticamente, per quanto attinta a un’esperienza umanamente viva e vera […] E dal suo racconto, come per lievitazione epica di questo motivo lirico, ecco infine liberarsi un senso che va oltre le personali vicende del modesto rapsodo, per farsi allusive del dramma di tutto un popolo, tradito e trascinato in una guerra folle». Acclama anche Italo Calvino che nel “Notiziario Einaudi” n.9 (settembre 1953) dichiara apertamente l’opera di Rigoni «una delle più belle testimonianze “spontanee”». Il plauso di pubblico per Il sergente nella neve ebbe eco anche Oltralpe, venendo tradotto tra il 1954 e il 2002 in molteplici Stati, tra cui Francia, Germania, Inghilterra, Cecoslovacchia, Stati Uniti, Spagna, Unione Sovietica, Portogallo, Giappone, Svezia. 

Ieri come oggi, la lettura de Il Sergente nella neve e delle altre opere di Rigoni assume il valore della riflessione sulla tematica dell’odio. Fu questa forse l’inaspettata forza che ebbe la pubblicazione del volume nel lontano 1953 quando, anziché ricevere memorie che sottolineassero incancreniti rancori, Rigoni mise sul banco dell’opinione pubblica un racconto di guerra che non accrescesse l’astio, ma che ne valutasse lo smorzamento attraverso l’unica parola di “ricostruzione” sensata e logica: pace. Nel giugno 1953 Lucio Lombardo di “Rinascita” colse il significato subitaneo della narrazione del Premio Viareggio, sottolineando come tra le righe «balza fuori con forza enorme l’assurdo di tanti giovani morti sulla neve, nelle campagne bianche di un popolo che non ci odia e che noi non odiamo, non si sa perché nemico, non si sa perché invaso».  È questa la cultura del non-odio. Un episodio tra tutti, tratto dal primo libro dell’asiaghese, è l'essenza di questo pensiero. Durante la ritirata di Russia il sergente maggiore Rigoni chiede di entrare in un'isba, si siede a tavola e condivide con i russi una zuppa:

«É stata una cosa naturale in quanto non erano nemici: erano persone che stavano mangiando perché avevano fame e io sono entrato a chiedere del cibo e me lo hanno dato. Una cosa molto semplice da spiegare. Me lo ha fatto notare un mio amico che era insegnante in un liceo e che leggeva ogni anno (alla fine del quarto anno) il Sergente e che si è accorto di una cosa molto semplice. Si è accorto che ho scritto: "Busso ed entro". Il fatto sta in quel "busso", perché io ho chiesto di entrare come si fa in una casa di un vicino o di una persona comune: si bussa e si chiede il permesso. E dal momento che si chiede il permesso uno non entra per far del male o per far violenza. Se entra chiedendo permesso entra per essere ospite. Loro lo hanno capito. Sono entrato solo per chiedere qualcosa: ho chiesto da mangiare. E la signora, una giovane sposa russa, ha preso un mestolo di minestra dalla stessa pignatta dove mangiavano i russi e me lo ha dato. Ho ringraziato, ho salutato e sono uscito».

Il momento è ricco di suspence e si direbbe quasi onirico, irreale, utopico, fuori da ogni logica di ciò che stava accadendo. In pochi attimi defluisce dallo scenario il puzzo della guerra, annientandosi e lasciando spazio alla ragione e alla civiltà, al protagonismo, citando l’anzidetto Antonio Motta, della «storia umile sulla storia “grande”».

In copertina: Mario Rigoni Stern
immagine di repertorio

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JAGO - Scultura senza confini

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