ALESSIO BONI – “Non dobbiamo mai smettere di sognare”

ALESSIO BONI – “Non dobbiamo mai smettere di sognare”

Attore di fama internazionale, regista teatrale e cinematografico, Alessio Boni vive la sua vita seguendo una regola ben precisa: "Se il tuo mondo non ti permette di sognare, scappa verso uno dove puoi".

Originario della zona del Lago d’Iseo ma fedele fin da giovanissimo ai suoi principi, spicca il volo dal nido subito dopo il diploma di ragioneria, trasferendosi per un periodo negli Stati Uniti e lavorando, successivamente, in diversi villaggi turistici come animatore.

A 22 anni, entrando per la prima volta in un teatro, la sua vita cambia totalmente: Alessio capisce subito che il suo futuro è nella recitazione e vi si getta a capofitto, guadagnando l'ammissione all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico di Roma e ottenendo delle parti in teatro, nel cinema e nella televisione, avendo così l’opportunità di lavorare a stretto contatto con grandi maestri quali Giorgio Strehler e Luca Ronconi.

La sua carriera compie un importante passo avanti con la partecipazione a La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, per la quale vince anche un Nastro d’Argento. In seguito interpreta i ruoli più svariati. Tra questi: Caravaggio, Puccini, Heathcliff in Cime Tempestose, il principe Andrej Bolkonskij in Guerra e Pace, Walter Chiari, Enrico Piaggio, Ulisse, Don Chisciotte; opera, quest’ultima, di cui cura anche la regia.

Attualmente, possiamo vederlo sui canali Rai con le serie La compagnia del cigno e La strada di casa, oltre che con un cameo ne Il nome della rosa, fiction internazionale ispirata al romanzo di Umberto Eco e alla trasposizione cinematografica di Jean-Jacques Annaud.

Nonostante la lunga serie di successi internazionali, Alessio Boni non si limita solo a far benissimo il suo mestiere: da diversi anni, infatti, si dedica intensamente a diverse cause benefiche, a dimostrazione che, oltre a essere un attore straordinario, è anche un uomo dall’animo nobile e generoso.

Gentilissimo, ci ha concesso una lunga intervista ma ci bastano pochi minuti di conversazione per capire che abbiamo di fronte una persona di grande spessore e sensibilità.  

La Compagnia del Cigno © RAI/Luca Bigazzi

La Compagnia del Cigno © RAI/Luca Bigazzi

Alessio Boni, a soli 20 anni sei partito per la California. Cosa cercavi da quella prima avventura internazionale?

Cercavo “il sogno americano”. Era il 1987 e, nell’immaginario collettivo di noi italiani, l’America rappresentava il Paese delle opportunità. Dopo il diploma di ragioneria avevo lavorato come piastrellista e avevo prestato servizio militare in Polizia ma volevo mettermi in gioco in un contesto diverso e imparare l’inglese. Così partii e, una volta a San Diego, mi adattai a fare qualsiasi mestiere che potesse aiutarmi a guadagnare il minimo indispensabile per vivere: lavapiatti, babysitter, cameriere, pizzaiolo, pony express… A un certo punto mi scadde il visto e dovetti tornare in Italia. Per fortuna, tramite un amico trovai subito impiego come animatore, prima per la stagione invernale a Monte Campione e poi per l’estate a Pugnochiuso, in Puglia.

Come sei arrivato a fare l’attore?

Mentre lavoravo nei villaggi turistici, ancora non pensavo alla recitazione. Il suggerimento arrivò da un capo animatore, che mi incoraggiò a provarci. Preparai un dialogo e mi presentai a una selezione. Di fronte a me avevo tre mostri sacri: Masina, Comencini e Bolognini. Ero solo, senza una “spalla”, come si dice in gergo: inscenai lo stesso il dialogo e ovviamente non fui selezionato ma, malgrado la mia inesperienza, mi classificai undicesimo. Presero i primi dieci ma per me fu un segnale importante. Capii che forse avevo potenziale. Nel frattempo, mi capitò di vedere a teatro La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone e scattò l’amore per questo mestiere. Così decisi di mettermi a studiare seriamente. Durante gli anni di Accademia, a Roma, lavoravo come cameriere ma non avvertivo la fatica: tanto era l’entusiasmo. Ricordo sempre quegli anni come uno dei periodi più belli della mia vita.

Fin dal tuo debutto nello spettacolo, nel 1988, hai sempre lavorato intensamente: fotoromanzi, cinema, televisione, ma la tua evoluzione professionale sembra averti portato soprattutto verso il teatro. A cosa si deve questa preferenza?

Il teatro è nel mio DNA. La mia formazione è avvenuta nel teatro: cinema, televisione e tutto il resto sono arrivati dopo. Per me, quindi, il teatro è l’arte per eccellenza ed è importantissimo, soprattutto per quello che offre in termini di rapporto con il pubblico: è un termometro della società, che permette di comprendere le differenze culturali tra una città e l’altra. Girando l’Italia in tour, ho avuto modo di apprezzare le diverse regioni, i dialetti, la cucina. Insomma, il teatro mi ha dato l’incredibile opportunità di conoscere meglio il mio Paese e di apprezzarne tutte le sfumature. Un patrimonio di esperienze che non si dimentica. A livello professionale, poi, ho avuto modo di lavorare con attori di grandissimo talento, che hanno deciso di dedicare la loro carriera artistica esclusivamente al teatro. Per questo, ogni anno, cerco di tornarvi almeno con un progetto.

Purtroppo ci ha appena lasciato Gigi Proietti. A tuo avviso, quanto è stato importante il suo contributo per il teatro italiano e per lo spettacolo in generale?

Gigi Proietti era dotato di grande umiltà e aveva la capacità unica di far sentire a proprio agio chiunque. Parlava a teatro come se fosse al bar: la sua era esibizione ma mai esibizionismo. Era un vero inventore della parola, un camaleonte e, per molti versi, mi ricordava Walter Chiari. Mi torna in mente un suo spettacolo al Teatro Brancaccio: un soliloquio di tre ore in cui emersero tutte le sue qualità. In particolare, ricordo un’interazione con una signora del pubblico che, a una delle sue battute, iniziò a ridere a crepapelle e non riusciva a smettere: lui, in maniera totalmente improvvisata, cominciò a ricamarci sopra, dando vita a dieci minuti di performance di altissimo livello.
Anche negli ultimi tempi la sua energia, dedizione e passione nei confronti del teatro erano pari a quelle di un ventenne. La sua morte rappresenta, per tutti noi, una perdita inestimabile.

Nel 1995 hai recitato ne L’Avaro di Molière, per la regia di Giorgio Strehler: un altro personaggio fondamentale per il teatro. Cosa ricordi di lui e qual è stato il suo più grande insegnamento?

Ho lavorato con Strehler quando lui aveva 74 anni e io 28 ed è stata un’incredibile lezione di vita: la sua abnegazione e il suo entusiasmo erano impareggiabili.
Ne ricordo soprattutto il lato umano. Era un creativo al 100% e con lui ho imparato a trattare il personaggio con grande rispetto. Il suo insegnamento era viscerale, senza intellettualismi. Un vero uomo di teatro.  

Nel 2004 hai ottenuto il Nastro d’Argento come migliore attore protagonista nella serie La meglio gioventù, ruolo che molti indicano come il punto di svolta della tua carriera. Sei d’accordo?

Sì, assolutamente! Non a teatro ma nel cinema sì, la differenza tra prima e dopo La meglio gioventù è palpabile: diciamo che, da quel momento in poi, ho smesso di fare provini! (Ride, ndr).
Certe esperienze professionali ti cambiano la vita ed è un qualcosa che auguro di vivere a tutti i miei colleghi.

Nel 2006, invece, hai vinto il Globo d’Oro per Arrivederci Amore, Ciao. Com’è stato calarsi per la prima volta nei panni del cattivo?

Per questo ruolo, come per molti altri in seguito, mi è tornato utilissimo l’insegnamento di Strehler. Ho capito che in Giorgio Pellegrini – il protagonista della pellicola – non si doveva intravedere neanche l’ombra di Alessio Boni. Dovevo affrontare il personaggio senza giudicarlo, annullarmi completamente ed entrare nella sua psicologia, sposare totalmente la sua criminalità mentale e renderlo “giusto” dal punto di vista interpretativo. Per un attore si tratta di un’esperienza professionale potente e ricordo dei “cattivi” davvero memorabili: pensiamo, ad esempio, all’interpretazione di Hitler ad opera di Bruno Ganz.
La difficoltà, una volta concluso il lavoro, sta nell’uscire dal personaggio. Ricordo che durante le riprese, che duravano anche 10/12 ore, trovavo a malapena il tempo di riposare, quindi non riuscivo mai a ‘staccare’ e mi ritrovavo, inevitabilmente, a vivere più tempo come Giorgio Pellegrini – un assassino seriale – che come Alessio Boni: di conseguenza ero irascibile, scattavo subito. Si è trattato di un lavoro molto faticoso ma davvero interessante e preziosissimo in termini di esperienza professionale. Tutti gli attori dovrebbero interpretare, almeno una volta, un ruolo di questo tipo.

Nella tua carriera ci hai abituato a interpretazioni memorabili. Tra tutti i personaggi interpretati, ce n’è uno che ricordi con maggiore affetto?   

Per come ha cambiato il mio percorso professionale, sicuramente Matteo Carati de La meglio gioventù occupa un posto speciale nel mio cuore. Tuttavia, il personaggio più difficile che ho dovuto interpretare, ma anche quello che mi ha regalato le più grandi soddisfazioni, è stato Walter Chiari.

Interpretare un ruolo di fantasia come Carati, o perfino un Caravaggio che nessuno di noi ha mai visto direttamente, non lascia alcuno spazio a paragoni. Walter Chari, al contrario, era un personaggio conosciuto da tutti. Basta fare una ricerca su internet e vengono fuori migliaia di video, fotografie e notizie che lo riguardano. A ogni occasione, quindi, ognuno avrebbe potuto dire: “ma lui non camminava così”, oppure “non parlava in questo modo”, e così via.

Proprio per questo, in preda a mille dubbi, ogni giorno, dopo le riprese, mi chiedevo se avevo fatto bene ad accettare quella parte.

Walter Chiari era un caleidoscopio di emotività, sensazioni, alti e bassi. Era un latin lover e un ammaliatore. Ho dovuto interpretare le sue gioie e le sue pene facendo i conti, ogni volta, con la realtà che era sotto gli occhi di tutti. Interpretarlo è stato di una difficoltà indescrivibile ma, alla fine, il complimento più bello mi è arrivato da suo figlio, Simone Annicchiarico, che mi ha chiamato subito dopo la messa in onda delle due puntate da parte della Rai, dicendomi: “Nella vita ho pianto due volte: quando è morto mio padre e stasera, guardando la tua interpretazione”. Per un attore, non credo ci possa essere complimento più grande.

Emily Brontë, Tolstoj, Shakespeare, Cervantes... La letteratura è sempre stata parte integrante del tuo lavoro. Qual è l’autore che ami di più?

Dostoevskij. Ha una capacità descrittiva impareggiabile. Riesce a trasformare ogni personaggio in un fotogramma. Direi che è quasi un cineasta. Proprio per questo mi sarebbe piaciuto tantissimo recitare nella parte di Raskolnikov in Delitto e Castigo ma a 54 anni, interpretare un ventiquattrenne, mi sembra ormai difficile.

Nel settembre scorso sei salito sul palco dell’Arena di Verona, in occasione del Festival della Bellezza, recitando una poesia di Alda Merini. Quello tra bellezza e poesia è un binomio indissolubile, che perdura fin dai tempi dell’antica Grecia. Cos’è per te la bellezza e come si sposa con la poesia?

Bellezza e poesia vanno di pari passo. Mentre, però, la poesia si crea, la bellezza è un qualcosa che si presenta all’improvviso e ti trafigge. Parlo, ovviamente, di qualsiasi forma di bellezza, nei suoi miliardi di accezioni. Basti pensare a Stendhal che nel vedere per la prima volta le bellezze italiane, a cui non era abituato, ebbe un malore. Ancora oggi ci sono persone che svengono di fronte a una scultura di Bernini o a un’opera di Michelangelo.

La bellezza non ti concede il tempo di prepararti: ti arriva addosso e ti entra dentro. Un libro di Emily Dickinson, un pensiero di Heiddeger o Buber, un brano di Pasolini, una poesia di Neruda o Hikmet, sono tutte forme di bellezza. Una bellezza intensa, che può lasciare disorientati.

Durante il primo lockdown in Italia, nella primavera scorsa, hai portato la poesia nelle case, recitando e postando il video di un’opera al giorno per 40 giorni. Cosa ha ispirato questo progetto e qual era lo scopo?

Ci sono diverse forme di poesia. C’è una poesia per pochi, come quella di Giovanni Pascoli o Gabriele D’Annunzio, e una poesia per tutti, come quella di Alda Merini. Il mio desiderio è far sì che la poesia arrivi sempre più a essere alla portata di tutti, perché è la parte più bella dell’animo umano.

Tuttavia, poiché spesso si tende a sminuirne la figura, essere un poeta, oggi, richiede grande coraggio. Un coraggio che, pur essendo la più bella tra le virtù, si trova facilmente nei bambini ma sempre meno negli adulti. I bambini sognano, mentre gli adulti a un certo punto smettono di farlo.

Ecco, la poesia ci dà il coraggio di sognare e il mio desiderio, portandola ogni giorno nelle case, era proprio quello di toccare l’animo di tutti e aiutare le persone a tornare a sognare, soprattutto in un momento in cui ne avevamo davvero bisogno. Spero, almeno in parte, di averlo fatto.   

In un’intervista hai rivelato di aver studiato recitazione per diventare un artigiano della parola e restituire emozioni al pubblico. Quando hai capito di essere riuscito nell’intento?

In realtà devo ancora capirlo. Ancora oggi, ogni volta che mi viene proposto un personaggio, ho sempre il timore di non riuscire a interpretarlo: mi sento inferiore, mi tremano i polsi… Nonostante tutto, però, rifarei questo percorso diecimila volte solo per provare le emozioni che mi assalgono, inevitabilmente, a ogni nuovo progetto.

Video: "Lo sguardo dell'altro" - con Cesvi in Zimbabwe, 2017

Una domanda sul tuo grande impegno sociale: per diversi anni sei stato Ambasciatore UNICEF e tuttora sostieni Medici senza Frontiere, Cesvi e altre organizzazioni. Quanto è importante, per te, donare il tuo tempo e la tua popolarità per sensibilizzare il pubblico su temi di solidarietà?

Sicuramente la mia testimonianza e, in generale, quella di personaggi noti, può servire molto perché aiuta a raccogliere più velocemente i fondi necessari alle organizzazioni per portare avanti le loro rispettive missioni. Devo dire, però, che sono io il primo a beneficiarne.

Tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di nascere nel “Nord” del mondo, diamo molte cose per scontate ma ritrovarmi, ad esempio, nello Zimbabwe, dove non esiste l’acqua calda, il frigorifero, oppure un bagno, in un luogo dove si deve ancora cacciare per mangiare e si muore per il motivo più futile, è stato per me un grande arricchimento, non solo a livello personale ma anche professionale.  Il mio mestiere è quello di interpretare i sentimenti, le emozioni, e questo posso farlo soltanto se ho un bagaglio di esperienze alle spalle che me lo permetta.

Da pochi mesi sei diventato papà del piccolo Lorenzo. In un mondo sempre più complesso, quali valori speri di trasmettere a tuo figlio?

La libertà più assoluta! Spero che faccia ciò che più lo appassiona, senza alcuna pressione. Da genitore, posso solo far sì che mio figlio riceva un’educazione adeguata e, in generale, cercare di infondergli il senso del bello della cultura e del sapere ma poi dovrò lasciarlo libero di seguire la sua strada. Spero di riuscirci perché, come sosteneva Alda Merini: “Chi ama troppo il proprio figlio, spesso lo sacrifica al proprio io”.

In copertina: Alessio Boni
(immagine: www.cdastudiodinardo.com)

Grazie a: Alberto Willy Vecchiattini

Crediti fotografici slideshow:
- Walter Chiari. Fino all’ultima risata © Bepi Caroli
- Il ritorno di Ulisse © Gianmarco Chieregato
- Don Chisciotte © Lucia De Luise
- Enrico Piaggio. Un sogno italiano © Lorenzo Adorisio
- Caravaggio © Piero Marsili Libelli
- Cime Tempestose © Bruno Sbrighi e Rino Petrosino
- Guerra e Pace © Morris Puccio
- Puccini © Daniele Musso
- La meglio gioventù © Roberto Forza

Video:
- Lo sguardo dell’altro © Alessio Boni

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