LA GEOMETRIA DEI SENTIMENTI – "L'Eclisse" e lo sguardo di Michelangelo Antonioni

LA GEOMETRIA DEI SENTIMENTI – "L'Eclisse" e lo sguardo di Michelangelo Antonioni

Per Nanni Moretti gli amanti del cinema italiano si dividono in due campi: i sostenitori di Antonioni contro quelli di Fellini.

Moretti ha indicato la sua preferenza per l’immaginazione egocentrica, la critica sociale “sottile” e la joie de vivre che ricorrono nell’intera produzione di Fellini. Ma quali sono, invece, le qualità che caratterizzano il lavoro di Michelangelo Antonioni?

Ci vengono in mente, innanzitutto, la sperimentazione formale e il disprezzo per la narrazione tradizionale, ai quali si aggiungono il fascino per la modernità e un insieme di personaggi in preda a crisi esistenziali.

Se uno stile e una filosofia personali rendono il cineasta un artista, allora Antonioni supera ampiamente la prova. E in particolare L'eclisse (1962), vincitore del Premio speciale della giuria a Cannes, ci aiuta a riflettere sui suoi primi successi e a chiederci cosa offrono, ancora oggi, i suoi film agli spettatori del XXI secolo.

L'eclisse è il terzo film della trilogia in bianco e nero che ha contraddistinto Antonioni come regista rivoluzionario. Presi insieme, L'avventura (1960), La notte (1961) e L'eclisse mostrano tre importanti qualità.

In primo luogo, i sentimenti umani vengono esplorati con mezzi non convenzionali. Lo stesso Antonioni, in quegli anni, descriveva il suo interesse per le tecniche del nouveau roman (corrente letteraria nata in Francia tra gli anni 50 e 60, che rifiuta il personaggio per focalizzarsi sulle caratteristiche della realtà che esulano dalla soggettività umana, ndr) e i suoi film adottano un approccio simile. La cinepresa si trasforma in un occhio curioso, che scansiona la superficie delle cose, passando da oggetti familiari a dettagli del corpo umano, oppure a “lampi” di paesaggio. Da ciò deriva il distacco del regista dalla narrativa cinematografica tradizionale, il suo rifiuto di presentarci personaggi tridimensionali con un passato e un presente distinguibili. Un aspetto che alcuni spettatori trovano frustrante e altri stimolante, è il tentativo di descrivere gli stati psicologici attraverso i mezzi visivi.

La seconda qualità riguarda la sostanza formale di questi film. L'interesse di Antonioni nel mostrare, piuttosto che nel raccontare una storia, si riflette nelle inquadrature, dove la ricerca sensoriale diventa ricerca di elementi di armonia e di ordine in un mondo caotico. Inscrivere la realtà all'interno della geometria rettangolare di ogni inquadratura è un atto tanto filosofico quanto tecnico. Da qui, il fascino di Antonioni per le prospettive lineari, gli oggetti geometrici, le forme architettoniche. I critici anglosassoni hanno spesso indicato un parallelo con l'arte modernista, ma questo rischia di limitare la discussione a una mera questione di ibridismo culturale. Piuttosto, l’uso del lineare e del geometrico, in Antonioni, deriva dalla necessità di captare segni sensoriali in un mondo altrimenti privo di significato. Il regista non vuole lodare o imitare la bellezza stilizzata dell'arte modernista ma ne è attratto, per il suo tentativo di razionalizzare la realtà. Le forme spigolose dell'EUR, il quartiere modernista di Roma, o le linee semplici di una lampada ad angolo sono i simboli del tentativo di dare ordine alla complessità e alla molteplicità: uno sforzo frustrante e, alla fine, non riuscito.

Il quartiere dell’EUR

Il quartiere dell’EUR

Il terzo, e forse più controverso, aspetto del cinema di Antonioni si ritrova in un tema ossessivamente ricorrente. Un termine spesso adottato per descriverlo è "alienazione", usato vagamente per riferirsi all'inclinazione del regista verso personaggi borghesi che soffrono di crisi di identità. L’ingrediente tipico è la mancanza di comunicazione e comprensione tra innamorati, sebbene le crisi si estendano anche al modo in cui gli individui si relazionano alla società e alla natura: nell’osservare questi personaggi perplessi su chi sono e cosa vogliono, senza alcun tentativo di spiegazione o risoluzione del loro stato, si ha la sensazione che si sia persa la capacità di essere un tutt'uno con se stessi e con il mondo. Forse, questi, sono i simboli del nostro distacco dalla natura e dalla storia, anche se Antonioni rifiuterebbe una generalizzazione così radicale. Certamente, tutte queste personalità nevrotiche, aggiungono una qualità innaturale ai suoi film. Gli stati d'animo mutevoli di Monica Vitti in L'avventura e L'eclisse sembrano a volte rigidi e teatrali, non perché sia ​​un'attrice di scarse capacità, ma perché il suo personaggio è sospeso in un limbo cinematografico e si ritrova a recitare una crisi di personalità che precede l’apparizione sullo schermo. Il fatto che un personaggio femminile sia il veicolo di tali crisi, invita a una critica basata sulla politica di genere: qui abbiamo gli uomini come simboli di razionalità e potere in contrasto con le menti non razionali, istintive e fragili delle donne. Borghese, donna, bella ma smarrita: che ci piaccia o no, questo è un cliché nei film di Antonioni dei primi anni Sessanta.

Masterclass in tecnica

L'eclisse ci offre l’opportunità di apprezzare tutta la raffinatezza del lavoro in bianco e nero di Antonioni. Il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, all'apice della sua carriera – l’anno successivo lavorerà a 8 1/2 di Fellini – fornisce un'illuminazione ben definita, che consente al regista di trasformare la sua limitata tavolozza di colori in un potente strumento per rafforzare la definizione formale di spazio.

Se c'è un film che giustifica l'esitazione dei cineasti del dopoguerra a passare alla tecnologia del colore, è L'eclisse. Antonioni diventa subito un innovatore nel colore con il suo lungometraggio successivo, Il deserto rosso (1964), ma L'eclisse è tra i film in bianco e nero più sofisticati mai realizzati.

La sequenza di apertura è una masterclass di tecnica cinematografica. Mentre i titoli di testa scorrono su uno sfondo nero, veniamo allertati sulle intenzioni del regista quando una canzone pop orecchiabile viene improvvisamente sostituita dalle note stridenti di un brano musicale atonale. Il film inizia, quindi, con una lunga sequenza durante la quale la cinepresa sonda oggetti e persone in una stanza, accompagnata solo dallo snervante ronzio di un elettroventilatore. La preferenza per riprese lunghe e statiche potrebbe suggerire un legame con il passato di Antonioni come neorealista ma, uno sguardo più attento, rivela che il ritmo lento della narrazione è controbilanciato da un montaggio frammentato della scena. Ci vengono presentate istantanee della realtà, consapevoli della centralità della mise en scène. L'attenzione ai dettagli è fondamentale: informazioni e riferimenti simbolici vengono presentati visivamente in gran quantità, a tal punto che il dialogo dei personaggi diventa ridondante.

Le parole disturbano

Il formalismo di Antonioni, però, va oltre l'invasione di riferimenti simbolici all’interno dell’ambientazione realista: in tutto il film, la cinepresa del regista è alla continua ricerca di un perduto senso di armonia. La rottura del rapporto di Vittoria con un intellettuale di sinistra – come suggerisce la pila di riviste culturali comuniste su un tavolino da caffè – la porta all'altro capo dello spettro politico: durante una visita alla caotica Borsa di Roma incontra Piero, un giovane e burbero azionista interpretato da un brillante Alain Delon.

Per molti versi, Piero è il prodotto della ritrovata ricchezza e del culto della bellezza in Italia: guida un'Alfa Romeo a due posti (un'icona dello swinging italiano degli anni Cinquanta) e quando l'auto viene rubata da un ubriaco che, nel processo, finisce per uccidersi, Piero si preoccupa solo del costo delle riparazioni.  

Il dialogo è quasi ridondante e l'egoismo di Piero un po' troppo enfatizzato ma, ciò che lo riscatta, sono le meticolose riprese di Antonioni: il dettaglio della catena di un paranco, che emerge lentamente dalla superficie piatta dell'acqua per tirare fuori l'auto di Piero, è sia esteticamente compiuto che simbolicamente carico. Questo è Antonioni al suo meglio: e la trama diventa quasi un impedimento, un male necessario.

L'eclisse è anche uno studio su come la cultura moderna definisce la nostra percezione della realtà. Per quanto educate siano le sue rappresentazioni, non c'è dubbio che Antonioni stesse attingendo a un senso di disagio che pochi anni dopo sarebbe esploso nel movimento di protesta studentesco e operaio e, successivamente, in atti di terrorismo. La rappresentazione del mercato azionario ha un aspetto surreale, documentaristico: milioni di lire si fanno e si perdono nel giro di pochi secondi e, l'incapacità di Vittoria di comprenderlo, mostra il capitalismo come un'oligarchia, dove pochi tirano i fili mentre il resto guarda stupito. Allo stesso modo, il suo incontro con la cultura del terzo mondo – durante una visita a un'amica che viveva in Kenya – produce solo imbarazzanti incomprensioni.

Video: L'Eclisse, scena finale

Questo senso di disagio, di mancanza di comprensione, prende il sopravvento in modo spettacolare nella scena finale del film. Qui la cinepresa rivisita lentamente i luoghi in cui Vittoria e Piero si sono precedentemente incontrati. Solo che ora non si vedono da nessuna parte. L'assenza dei protagonisti concentra la mente dello spettatore sul paesaggio urbano. Le inquadrature, dettate dalle linee rette del quartiere EUR di Roma, regalano il piacere di panorami composti misto a perplessità sul loro significato. Un personaggio anonimo che scende da un autobus tiene in mano un giornale, i cui titoli sono chiaramente visibili: "La gara atomica"; "La pace è debole". È, forse, un invito del regista a riflettere sulla fragilità della vita moderna? Ancora una volta c'è la sensazione che le parole si intromettano, poiché la bellezza della sequenza sta in ciò che è al di fuori del linguaggio.

Bandire i personaggi principali consente ad Antonioni di inquadrare la sua visione della società moderna, mentre la cinepresa scansiona lentamente le strade e riempie lo schermo di dettagli urbani, giustapposti a pochi segni del mondo naturale: uccelli appollaiati su un tetto geometrico; acqua che gocciola da una botte; un cavallo che trotta per un viale deserto.

Il rapporto della società industrializzata con la natura, evocato in questa raccolta di riprese mute, simili a documentari, è al centro de Il deserto rosso, il primo film ecologicamente orientato del cinema mondiale.

Video: Il Deserto Rosso, primo film a colori di Antonioni

Relazioni imperfette

Antonioni non è un narratore, quindi criticarlo per non aver raccontato storie divertenti non avrebbe senso. Pittore oltre che regista, si interessa prima di tutto al pittorico. Aneddoti di alberi e prati colorati durante le riprese de Il deserto rosso mostrano fino a che punto il regista fosse disposto ad arrivare per creare l'effetto visivo desiderato. Eppure il pittorico, qui, non è al servizio della bellezza da cartolina o dei paesaggi sensuali, ma sembra piuttosto riflettere un disagio provato dai personaggi tanto quanto dal regista. Almeno, questo, è quanto si può concludere dal fatto che con il ritorno alla cinematografia dopo un periodo di cattiva salute – con Al di là delle nuvole (1995) e il cortometraggio Il filo pericoloso delle cose (2001) – Antonioni continua a esplorare temi già trattati negli anni Sessanta, come le relazioni imperfette tra natura, società e individuo.

Bellezza pittorica e rimuginazioni esistenziali 

Se questa è l'eredità di Antonioni, allora si è tentati di cercare altri film che adottino un approccio simile, come la trilogia dei tre colori di Kie ́slowski (1993-4) e Parigi, Texas (1984) di Wenders. Persino la qualità allucinatoria di Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola potrebbe essere un omaggio all'opera di Antonioni. La crisi inspiegabile del colonnello Kurtz; il misto di azione sospesa e bellissime immagini; l'estetica della violenza e della distruzione: si pensi alla gigantesca esplosione che conclude Zabriskie Point (1968) di Antonioni; l'impressione di un mondo che ha perso il senso dell'orientamento: tracce tenui ma indicative. E Joseph Conrad – il cui Cuore di tenebra è l'ispirazione per il film di Coppola – è anche uno dei romanzieri preferiti di Antonioni, per la sua capacità di rappresentare l'alienazione dei personaggi dal loro ambiente.

Nel suo discorso di ringraziamento dopo aver vinto l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale con Lost in Translation (2003) – uno studio visivamente sofisticato di due persone in un paesaggio straniero, che lottano per dare un senso alla loro vita quotidiana – Sofia Coppola menziona proprio Antonioni come una delle sue fonti di ispirazione. Un altro film simile è Morvern Callar, il secondo lungometraggio di Lynne Ramsay (2001), storia del viaggio esistenziale di una giovane donna scozzese raccontata in termini visivi e musicali brillanti.

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Nel 1995, Michelangelo Antonioni ricevette un Oscar onorario "in riconoscimento del suo ruolo come uno dei maestri stilisti visivi del cinema". Tre anni prima, Hollywood aveva concesso lo stesso premio a un altro regista italiano, Federico Fellini, "in apprezzamento di uno dei più grandi narratori dello schermo".  Atti di un doppio omaggio tardivo ma appropriato. Se Fellini merita il plauso di grande narratore, Antonioni – che lo si ami o meno – rimane un maestro dell’immagine.

In copertina: Michelangelo Antonioni

(Articolo originale in inglese pubblicato su Sight and Sound magazine)

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